Ovunque l’economia è in caduta libera

di | 1 Giu 2009

Più che le società multinazionali e la delocalizzazione delle attività, specie industriali, dalle economie ricche verso i paesi a basso costo di manodopera, come Cina, India, ecc., la vera globalizzazione è stata realizzata dalla crisi finanziaria e poi economica scatenatasi con lo scoppio inevitabile delle varie bolle speculative, prima in ordine di tempo quella della cosiddetta new economic di Clinton, durata otto anni, seguita a ruota dalla bolla speculativa immobiliare e poi da quella dei prodotti energetici, con il petrolio schizzato a 150 dollari al barile, in concomitanza con la speculazione sui generi alimentari di base, le note commodities. Si può ricordare la corsa in alcuni paesi asiatici ad arraffare le spighe di riso ancora verdi e il rincaro nei paesi ricchi dei prezzi dei generi alimentari. La speculazione aveva scatenato la paura di una mancanza di cibo. Dalla presidenza di Clinton a quella di Bush sono passati ben 16 anni, durante i quali, nonostante i pareri contrari, il mondo è stato illuso che fosse possibile creare ricchezza con la carta finanziaria allo scoperto. Come era da attendersi, ora occorre pagare il conto, che sarà molto salato.

Intanto la recessione economica è diventata globale nel vero senso della parola e non c’è paese che non accusi cadute inusitate degli indici della produzione industriale, che nel marzo scorso si aggiravano tra il 20 e il 30 per cento, per cui per risalire alle quote in essere prima dell’estate dell’anno scorso occorre recuperare anche una quarantina di punti. Si pensi all’indice della produzione automobilistica caduto negli Stati Uniti a livelli di fallimento.

Nel primo trimestre di quest’anno e rispetto a un anno prima il prodotto lordo interno, il classico pil, è caduto in misura inusitata in tutti i paesi avanzati. La caduta si misura in via provvisoria nel 5, 9 per cento in Italia, mentre si rileva contro tutte le attese un crollo del 6,1 per cento negli Stati Uniti, che segue la caduta del 6,3 per cento del trimestre precedente, ossia il quarto del 2008, in presenza di un disavanzo di bilancio che viaggia a oltre il 12 per cento del pil e un disavanzo di bilancia dei pagamenti ormai non più sostenibile. Volente o nolente il nuovo presidente Obama dovrà riallineare i conti, con quello che segue anche in termini di consumi.

In Germania la caduta del pil per quest’anno, secondo le stime del governo, che sono prudenziali, è attesa in un 6 per cento. Un vero e proprio tonfo per l’economia tedesca, che si considera «virtuosa», tanto da vantarsi di avere un bilancio pubblico perfetto e, invece, accusa ora un disavanzo record dal dopoguerra di 80 miliardi di euro e tale da porsi ben oltre i limiti del Trattato di Maastricht, fissato nel 3 per cento di disavanzo sul pil. Si prevede che la Germania vada ben oltre il 6 per cento. La recessione della Germania è ben più profonda di quella dell’Italia, perché la sua economia è stata orientata fin dalla crisi petrolifera del 1973 alle esportazioni, seguendo cioè un principio mercantilistico, che ha ben poco o punto in comune con lo spirito che dovrebbe animare la Comunità europea. E dalla Germania sarà difficile per non dire impossibile per i paesi dell’eurozona in difficoltà ottenere aiuti. Un noto uomo politico tedesco ha detto giorni fa che è più probabile una carestia in Baviera piuttosto che la Germania si sacrifichi per gli altri. La paura serpeggia nelle alte e basse sfere e non manca chi già vede riapparire gli spettri della Repubblica di Weimar, con il parossismo dell’iperinflazione e la lunga agonia della depressione, cui fu posto fine con l’avvento di Hitler. E proprio gli spettri di un passato da dimenticare hanno spinto la Germania a dettare le regole di Maastricht, che purtroppo è contro la storia, che non tollera unioni monetarie prive di unione politica.

In Spagna è entrato in crisi il tanto reclamizzato modello di crescita. Il pil è caduto da un +3 a un -3 e da nove mesi l’economia scivola su un piano inclinato, che sembra portare a una profonda depressione. Le vendite automobilistiche sono cadute del 40 per cento e il tasso di disoccupazione è salito al 20 per cento. Le persone senza lavoro hanno superato i cinque milioni di unità. Per anni e anni peserà sull’economia spagnola quel milione di appartamenti prodotto da una selvaggia speculazione immobiliare e rimasto invenduto. Si attende un’ondata di fallimenti e il dilagare della povertà.

In Gran Bretagna la caduta del pil è stata misurata nel 4,1 per cento, sempre nel primo trimestre di quest’anno rispetto al corrispondente periodo dell’anno scorso. Ma la crisi dell’economia britannica è più profonda di quella che ha colpito gli altri paesi europei avanzati, Italia compresa, perché da anni ci si è disinteressati dell’economia reale per dedicarsi all’economia finanziaria. La City ha imperato e ora l’economia reale sembra schiacciata dal peso dei titoli tossici. Forse prima che in Germania si provvederà in Inghilterra a creare una «bad bank», dove collocare i titoli tossici per un tempo indefinito, almeno fino a quando la ricchezza reale non aumenterà in proporzione e ciò significherà attendere il trascorre delle prossime generazioni. Intanto le riserve petrolifere del Mare del Nord si vanno rapidamente assottigliando e l’industria appare abbandonata a se stessa.

In Francia la caduta del pil risulta per ora del 3,2 per cento, ma le prospettive sono preoccupanti per la produzione, l’occupazione e gli scambi.
Rimanendo nell’ambito dei grandi paesi, il Giappone e in crisi economica profonda e in crisi di identità essendo crollati certi miti come l’occupazione garantita anche ai vecchi lavoratori. Espressione della profondità della crisi è il bilancio per la prima volta in forte perdita della Toyota. Nel paese del Sol levante, dove da anni il «cavallo non beve», nonostante la politica del basso, anzi bassissimo tasso di sconto della banca centrale, la crisi internazionale penalizza ora le esportazioni, ovvero il motore di crescita dell’economia. Nel febbraio scorso, ultimo periodo disponibile, rispetto al corrispondente mese del 2008, le esportazioni sono calate del 49,4 per cento e le importazioni del 43 per cento. È atteso un vistoso calo del pil, che si aggiungerà a quello del 3 per cento del quarto trimestre dell’anno scorso.

Nell’ambito dei paesi emergenti la crisi si proietta in tessuti economici ancora deboli e dipendenti troppo strettamente dalle esportazioni e dal lavoro delle multinazionali. In particolare, in Cina le esportazioni e le importazioni sembrano in caduta libera e la produzione industriale è meno di un terzo di un anno fa. Il perdurare dello stato di crisi nei paesi avanzati avrà riflessi pesanti sull’economia cinese, nel momento di difficile valutazione anche a causa di affidabilità non piena delle statistiche ufficiali.

Dai dati riportati si evince che il quadro di riferimento internazionale è piuttosto critico e preoccupante anche in prospettiva. Forse l’Italia sarà il primo paese a uscire dalla crisi, perché il suo tessuto di piccole medie imprese è più reattivo dei colossi bancari, finanziari e industriali di altri paesi ricchi, che formano il G7. Comunque non dobbiamo disperare, perché non siamo nel Medioevo, allorché l’ignoranza produsse una crisi economica durata quasi nove secoli e solo grazie all’inventiva italiana fu possibile avviare e spingere a far data dall’inizio del XIII secolo la rivoluzione commerciale, che attraverso lotte condusse alla rivoluzione industriale. Non siamo nemmeno negli anni ’30 del secolo scorso, allorché l’armamentario di politica economia e monetaria non era ricco e articolato come lo è oggi. Allora toccò attendere l’azzeramento dei valori speculativi, ritornare cioè ai valori in essere nel 1924 e procedere all’aggiustamento dei cambi valutari. In particolare, nel 1934 il presidente Roosevelt dovette svalutare il dollaro del 40,9 per cento rispetto all’oro. Oggi i governi, le istituzioni finanziarie internazionali e le banche centrali, pur essendosi mossi in ordine sparso, sono intervenuti anche in modo massiccio per impedire che la recessione si tramutasse in depressione economica.

Questo pericolo appare nel momento sventato e quindi è possibile che il punto più basso della recessione sia stato toccato o sia prossimo al superamento. A questo proposito è preferibile nutrire un certo ottimismo, anziché mostrare pessimismo. Ciò non toglie che la strada da percorrere per risalire la china e riportarsi nell’area della crescita economica sia facile e breve. Tra l’altro, sarà necessario ripulire i bilanci delle banche e delle società finanziarie, liberandoli dai titoli tossici. Gli «Stress test» di prossima applicazione anche in Europa consentiranno una certa chiarezza, più che necessaria per individuare dove l’enorme massa di titoli tossici, che è stata stimata in almeno 12 volte il pil mondiale, ossia qualcosa come 800.000 miliardi di dollari, sia andata a finire. Sarà anche necessario evitare che la moneta immessa nei circuiti bancari si trasformi in impulsi inflazionistici, per cui si verrebbe a vanificare l’incipiente sforzo di ricostruire un nuovo ordine monetario internazionale, premessa indispensabile di una crescita economica diffusa, stabile e duratura. Si spera che nel G8 de L’Aquila del prossimo luglio si dica qualcosa in proposito e si gettino le basi per impedire o stroncare sul nascere ogni nuova manovra speculativa della finanza d’assalto.