Intervista a Lino Patruno

Come e’ iniziata la sua attività artistica?

La mia passione per il jazz nasce nei primi anni ‘50. Io all’epoca ero un ragazzino, avevo 15-16 anni. In quel periodo c’era la musica della radio di Nilla Pizzi, Claudio Villa ed era appena iniziato il Festival di Sanremo. Allora l’unica alternativa a quella musica era il jazz tradizionale, quello che suono adesso. Un jazz che però non arrivava dall’America, come si penserebbe ma veniva dalla Francia come colonna sonora dell’esistenzialismo francese. Per esempio Sartre, Juliette Gréco avevano come colonna sonora la musica di Sidney Bechet, un grande musicista di New Orleans che dopo la guerra si era trasferito in Francia e aveva ottenuto un grande successo con “Petit Fleur” un brano venduto in tutto il mondo. Quella moda arrivò anche in Italia: maglione nero, collo alto, capelli alla fratina. Io ho iniziato suonando in una di queste orchestrine di jazz per tirarmela e avere modo di conoscere le ragazze più carine e trendy che non erano quelle che andavano nelle balere a ballare il valzer e il tango, ma frequentavano i locali in cui, invece, si suonava il jazz. Noi suonavamo il jazz al Santa Tecla con la mia band e nel giro di pochissimi anni siamo diventati dei professionisti e siamo stati invitati ai grandi festival del jazz come ai teatri Eliseo e Quirino di Roma e al teatro di Manzoni a Milano.

Siete stati i primi in Italia a fare questo genere?

Sì. Ma prima di me c’era qualcuno che aveva qualche anno più di me. A Roma c’era la “Roman New Orleans Jazz Band” e a Milano c’erano due orchestre, la “Milan College Jazz Society” e la “Original Lambro Jazz Band”. La mia jazz band era fatta dai più giovani quindi in ordine cronologico eravamo la terza band di Milano, ma sono riuscito a scalzare tutti gli altri. In seguito, quando ancora ero studente, ho preso in mano le redini della “Milan College Jazz Society” che aveva un nome più importante della mia piccola “Riverside Jazz Band”. Poi mi sono diplomato e ho lavorato presso l’allora Montecatini, diventata poi Montedison dove sono rimasto solo per quattro anni. Un giorno, arrivando il pomeriggio litigai col mio capo e decisi di lasciare il lavoro per sempre ,ero veramente stufo. Questo successe in concomitanza col Festival del Jazz di Sanremo a cui, tra l’altro, ero stato invitato. A quel punto cercai seriamente lavoro nella musica ed un giorno ricevetti una telefonata da parte di Micocci un produttore musicale di Roma venuto a Milano. Lui lavorava per la RCA ma si era trasferito a Milano dove era diventato direttore della Ricordi e mi contatto’ per incidere dei dischi e mi propose di seguire il loro catalogo internazionale”. Così come discografico riuscii a seguire e a programmare la mia attività musicale. Non dimenticherò mai la visita in ufficio del grande scrittore umoristico, Marcello Marchese, con un mio disco sotto il braccio: “Patruno? Ho comprato questo suo disco. Io devo fare una trasmissione televisiva che avrà un grande successo e si chiamerà “Il signore di mezza età”. La voglio nel cast della mia trasmissione”.
 

   Bud Freeman e Lino Patruno

Quindi il suo ingresso in televisione e’ stata una casualità.

Anche l’attività teatrale è stata frutto di una casualità. Continuando a suonare, a lavorare alla Ricordi mi sono anche dedicato al teatro, ed al cabaret. Io sono uno di quelli che, senza volerlo, ha creato il cabaret a Milano.

Prima ancora del Derby?

Ma certo. Al Derby prima facevano jazz, poi cabaret. Noi siamo andati al Derby nel ’64. I primi cabarettisti italiani siamo stati noi “Gufi”, come gruppo, e Iannacci, come singolo e basta, prima non c’era nessun’altro. “Il Bagaglino”, per esempio è venuto molto, molto tempo dopo.

Come ha preso forma la sua attività di cabarettista?

Tutto nasce da un appuntamento con una bella ragazza che dovevo incontrare in un locale di Milano che si chiamava “Capitan Kill”. Sono andato all’appuntamento e l’ho trovata in compagnia di un gruppo di amici, tra cui un certo Nanni Svampa. Da questo incontro è nato il nostro gruppo di lavoro ed abbiamo iniziato con la nostra band a fare tournee’in giro per l’Italia.

Avete anche suonato all’estero?

Siamo andati in Africa, lì non era proprio solo musica, era anche teatro. E poi sono stato sempre negli Stati Uniti che e’ la patria del jazz.

Voi avete fatto tournée di teatro e musica.

Abbiamo avuto anche dei temi, per esempio abbiamo fatto lo spettacolo sulle forze armate, contro il servizio armato, un altro sulla storia italiana fatto di sketch musicali, canzoni, dove io, per es., ho fatto venti parti, parlando in venti maniere diverse con tutti gli accenti, i dialetti, vestito in maniera diversa. È stata un’esperienza eccezionale. Se digita su Youtube “Lino Patruno e i gufi”, visualizza tre-quattrocento video dei gufi, non sa cosa facevamo, non lo può immaginare. Abbiamo avuto un successo pazzesco.

Lei è un rappresentante del jazz, è stato il primo a suonare il jazz in Italia, rappresenta il jazz italiano.

Beh, prima di me, negli anni Trenta, c’erano anche altri che suonavano il jazz, ma era un jazz contrabbandato con titoli italiani perché il sistema fascista non ammetteva la lingua inglese. Per cui usciva, per esempio, il disco “Saint Louis Blues” e sull’etichetta del disco c’era scritto “Le tristezze di San Luigi”. Questa era l’Italia. Nella mia collezione privata ho anche questo disco originale.

Questo remake italiano era in voga prima che Lei facesse in suo ingresso sul panorama musicale?

Durante il Fascismo io ero ancora piccolo. All’epoca il jazz era una musica nascosta. In Germania, invece, chi suonava il jazz veniva condannato a morte. Tuttavia un uomo molto intelligente del Terzo Reich di Hitler, Joseph Goebbels, era appassionatissimo di jazz e non poteva permettersi di non ascoltare il jazz. Allora cos’ha fatto? Questa storia me l’ha raccontata uno dei protagonisti tedeschi. Un giorno andai a Monaco a fare dei concerti ed arrivò a suonare come batterista un vecchietto, che mi racconto’ di essere stato uno dei musicisti dell’orchestra di Goebbles.
Goebbels chiamò tutti i musicisti di Monaco di Baviera e organizzò una grande orchestra di jazz cambiando tutte le parole delle canzoni americane a favore di Hitler che vennero trasmesse alla radio in tutta Europa. Le canzoni erano in inglese e furono interpretate da un certo Charlie, che era tedesco, ma di madre inglese.

   Bill Coleman e Lino Patruno

Quindi il jazz come la musica del regime. Veramente incredibile!

Queste vicende non le conosce nessuno e non le avrei sapute neanch’io, se quel giorno non fossi andato a casa di quel batterista. Da lì sono andato a Vienna a fare dei concerti ed ho trovato due dischi dell’orchestra di Goebbles, due cd con tutti i 78 giri di Goebbles. Successivamente è arrivato un documentario girato in Germania, trasmesso sulla terza rete RAI alle quattro di notte così non l’ha visto nessuno perché le cose belle non le deve vedere nessuno, in pieno stile RAI.

Lei ha lavorato molto anche in televisione.

Quando si poteva fare il jazz. Adesso è una parolaccia dire “Jazz” in televisione perché non fa audience. Allora io negli ultimi cinque, sei anni, cioè fino a due anni fa, ho realizzato per la RAI un programma di 40 puntate. Un programma mio, scritto da me, presentato da me, organizzato da me, i cui luoghi sono stati trovati da me perché non mi davano le location, non mi davano niente. Mi hanno dato le telecamere con uno, due o tre tecnici che riprendevano e poi una segretaria di produzione e basta. La regia l’ho fatta io, ho fatto tutto quanto io. Su Internet ci sono 40 puntate.

Dove sono state trasmesse?

Prima sono state trasmesse su RAI Sat Album, poi su RAI Sat Extra e le ultime su RAI Doc. Quando si è trattato di vedere l’ultima puntata, ho acceso il canale e non solo non c’era la mia puntata, ma non c’era neanche RAI Doc. C’era RAI Gulp con i cartoni animati.

Avevano cambiato il canale.

Sì, perché la cultura non ci deve essere. La cultura ti fa pensare e se pensi, non vedi programmi scadenti. Comunque c’è un link RAI su cui si possono vedere le 40 puntate di questo mio programma.

Quest’anno Lei ha fatto tante cose in Italia e nel mondo. Quali sono state le più rilevanti?

Beh, quest’anno ho fatto uno spettacolo di testi di blues e musica al prestigioso Teatro Regio di Parma. Io con Franco Nero e Vanessa Redgrave, la grande attrice. Abbiamo avuto il teatro pieno. Che emozione! Poi con Franco Nero siamo stati invitati al Festival del Jazz di New Orleans per presentare un film sul jazz che lui ha diretto come regista e dove ho scritto le musiche. Questo film ci ha procurato un sacco di premi, tra i quali la nomination al David di Donatello, il Golden Globe della stampa estera e il Premio Fellini per la colonna sonora. Grazie ad una regista americana, Bonnie Palef, siamo stati inviati al Festival del Jazz. L’ultimo artista italiano invitato risale al ’77, ed io sono lusingato di essere stato invitato al più grande Festival del mondo e di aver rappresentato il mio paese.

Una grandissima soddisfazione!

Sì, ma chi l’ha saputo? Quando sono venuto in Italia, le televisioni RAI 1, RAI2, RAI3, etc parlavano solo del fatto che George Clooney non stava più con la Canalis. Questa è la “Little Italy”.

Al Festival del Jazz come è stato ricevuto?

Meravigliosamente bene. Il Presidente della comunità italoamericana è venuto da Dallas per rendere omaggio a me e Franco Nero a New Orleans. Ha fatto fare due servizi televisivi chiamando RAI International ed abbiamo girato due speciali. Franco Nero ha girato uno speciale sulle case di New Orleans fatte costruire da Brad Pitt a sue spese ed io ho fatto un servizio davanti la casa di Nick La Rocca e ho raccontato la nascita del jazz, l’origine della parola “jazz”, l’immigrazione siciliana a New Orleans. Il jazz l’hanno inventato gli italiani a New Orleans. I neri hanno creato il blues, il gospel, gli spiritual, ma il jazz l’hanno creato i siciliani.

Facendo una precisazione, da dove deriva la definizione di “jazz”?

Nessuno ha mai saputo l’origine della parola. Il primo disco di jazz della storia è stato inciso nel 1917 da un’orchestra di New Orleans di bianchi che si chiamava “Original Dixieland Jass Band”. Jass era scritto con due “s”. Non si sa cosa volesse dire, probabilmente era una parola utile ad indicare un rumore, forse il piatto del Charleston. Questo primo disco, di cui posseggo una copia, ha avuto un successo strepitoso e la Victor ha tappezzato di manifesti, New York.
 


 Jimmy McPartand, Lino Patruno e Dick Cary

La Victor era la casa di produzione?

Sì. “Questa è la nuova musica che viene da New Orleans, comprate il disco dell’Original Dixieland Jass Band” invitava la pubblicità. È diventato un gioco a New York coprire la “j” della lettera jass in modo che si potesse leggere “Ass”, ed è scoppiato uno scandalo al quale bisognava rimediare. Dopo un piccolo tentativo in “jasz” di cui posseggo la documentazione originale, si è optato per le due “z”. Questa vicenda mi è stata raccontata dal figlio di Nick La Rocca. Quale fonte veritiera più di lui? Questa è la realtà, altrimenti non si capirebbe perché nei primi due dischi l’orchestra si chiama “Jass” e negli altri dischi si chiama “Jazz”.

Come mai sono stati i siciliani a dare vita a questo genere musicale e proprio a New Orleans?

Nel 1870, a Palermo, i due figli del direttore del porto, i fratelli Torre, proprietari di tre navi che si chiamavano tutte “Montebello” e che servivano per portare prodotti italiani negli Stati Uniti e al trasporto di cotone, realizzarono 1000 cuccette per trasportare anche passeggeri diretti a New Orleans. Il viaggio Parlermo-New Orleans costava la metà del viaggio Palermo-New York. Anche per questo motivo i mostri emigranti sono andati a lavorare lì, perché c’era bisogno di manodopera specializzata nel lavorare la terra, ed i contadini siciliani, sapevano farlo bene. Molti sono emigrati a New Orleans portandosi dietro la tradizione delle bande musicali siciliane. La maggior parte dei nomi dei musicisti del jazz di quell’epoca sono tutti italiani. C’era un attore diventato famoso per un musical americano che si chiamava Jimmy Durante ed è stato il primo pianista della storia del jazz nel 1917-18. Era un amico di Nick La Rocca, che poi è diventato attore, ma ce n’erano molti altri. Io ne ho conosciuti alcuni, ed ho anche suonato insieme a loro, solo che oggi non ci sono più, sono morti.

Quindi sono stati gli italiani che hanno dato vita a questo genere musicale.

Certo sono stati gli italiani. I dischi di Jimmy Durante sono del ’18 ed io ce li ho. L’Original Dixieland Jass Band ha cominciato nel ’17, Armstrong incide nel ’23, sei anni dopo. Gli anni di differenza sono tanti. Il primo nero che incide è Kidory. Incide due pezzi isolati nel 1921, quindi quattro anni dopo Nick La Rocca. Nessuno racconta la vera storia del jazz. Tutti dicono: “Ah, i neri hanno creato il jazz…” Bisogna tenere presente che i bianchi ed i neri vivevano separatamente. Joe Venuti, il primo grande violinista della storia del jazz, figlio di emigrati siciliani, mi raccontava che Eddie Lang in realtà si chiamava Salvatore Massaro ed era molisano. Lui è stato il primo chitarrista della storia che per andare ad imparare a suonare la musica blues dei neri ad Harlem si tingeva di nero il volto col tappo della bottiglia.
 

Incredibile questa storia!

L’uomo che ha, diciamo, rotto la tradizione è stato Benny Goodmann perché nel 1938 ha fatto un grande concerto alla Carnegie Hall di New York dove entravano solo le grandi orchestre sinfoniche. Lui ha portato per la prima volta nella storia la sua orchestra di musicisti neri e bianchi, tra cui un mio grande amico, pianista, Teddy Willson con cui ho fatto un disco pubblicato in America. “Teddy Wilson Live at Santa Tecla”, registrato al Santa Tecla, propone un trio: Teddy Wilson, io ed un batterista.
 

   Teddy Wilson e Lino Patruno
La sua produzione discografica?

Sa quanti dischi ho inciso? Nel mio ultimo libro ci sono tutti i racconti sui grandi musicisti americani, stranieri, tutti i dischi che ho inciso, tutte le cose che ho fatto e tutte le notizie degli ultimi dieci anni dove parlo male di tutti.

Mezzo libro dedicato ai dischi che ha inciso nel mondo!
Come vede il futuro del jazz?

Il jazz di oggi non mi piace per niente. È proprio assurdo e poi è diventato all’italiana. Si sono inventati un jazz all’italiana che non esiste nel mondo, frequentato solo da studenti, musicisti che sono stati studenti delle scuole di jazz dove t’insegnano tutto meno che la storia. T’insegnano uno strumento e ti dicono “Sei bravo, se fai più note del tuo amico”. Il jazz è diventato uno sport di velocità.

Ci sono ancora musicisti seri?

Pochi.

Sono forse quelli che vivono tra l’Italia e il mondo visto che nel nostro Paese non è facile essere valorizzati?

Ho due amici che sono due grandi pianisti, giovanissimi, di 27-30 anni. Sono Rossano Sportiello e Paolo Alderighi, entrambi di Milano. Sportiello ormai se n’è andato a New York e Alderighi sta per fare la stessa cosa. Sono pianisti a livello internazionale: vengono invitati ai grandi festival del mondo perché fanno musica retrò.

Progetti futuri?

Immediati, la ripresa delle mie lezioni di jazz alla Casa del Jazz. L’Alexander Platz tutti i lunedì qui a Roma non appena sarà pronto perché stanno facendo i lavori di ristrutturazione. Intanto ho organizzato dei festival, come quello di San Marino. Quest’ultimo è molto importante, lo faccio da diversi anni e quest’anno si è svolto a fine agosto.

Da dove vengono i musicisti più importanti?

Sono italiani, ma anche americani, stranieri. Li chiamo io, faccio tutto io. Sono il direttore artistico. Con i Ministri della cultura e della giustizia di San Marino stiamo creando un centro studi che prenderà il mio nome, lo organizzerò io perché il mio Paese, che è l’Italia, da me non merita nulla. Non amo l’Italia, ci sono nato per sbaglio o meglio amo l’Italia, ma non questa Italia.

Lei si sente cittadino del mondo, quindi?

Esattamente.

Quali sono i Paesi dove si è sentito più a casa?

Ci sono due musiche che amo moltissimo: il jazz e la bossanova, quindi Stati Uniti e Brasile. Se avessi trenta anni, me ne andrei a vivere negli Stati Uniti dove conta chi sa fare qualche cosa. In un Paese come l’Italia conti solo, se sei raccomandato. 
 

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