L’incerto futuro dell’Europa e il ruolo dell’Italia

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La grave crisi finanziaria che ha colpito gli Stati Uniti nel 2008 e rapidamente contagiato anche l’Europa ha messo in evidenza l’estrema fragilità dell’architettura istituzionale dell’Unione europea sul piano politico ed economico.
È ben noto che, con l’adozione del Trattato di Maastricht nel 1992, il processo di integrazione europea, fino a quel momento essenzialmente circoscritto alla creazione di un mercato unico e alla tutela della libera concorrenza, ha iniziato a comprendere nuovi settori tradizionalmente riservati alla sovranità statale, come la politica economica e quella monetaria.
 
In questi due ambiti, tuttavia, l’integrazione non si è sviluppata in modo omogeneo, poiché, mentre le competenze di politica monetaria sono state immediatamente trasferite all’Unione, quelle di politica economica sono rimaste agli Stati, e gestite attraverso forme di cooperazione piuttosto complesse e macchinose, alla costante – ma finora infruttuosa – ricerca di un assetto stabile e di una governance condivisa.
La ragione di questa «sfasatura» è da ricercare nelle ovvie resistenze opposte dagli Stati membri a cedere all’Unione europea una consistente porzione di sovranità nell’attuazione di decisioni che non attengono esclusivamente ai problemi di gestione del bilancio, ma coinvolgono settori nevralgici della politica nazionale, come quelli dell’imposizione fiscale, dell’occupazione, della crescita.

   La situazione non è migliorata con l’entrata in vigore dell’euro in alcuni paesi dell’Unione (17 in tutto), poiché se tale operazione ha in un primo momento assicurato la stabilità delle economie interne dei Paesi aderenti, lo squilibrio sopra descritto tra la gestione unitaria della politica monetaria e quella separata (seppure «coordinata») della politica economica ha impedito all’Unione europea di fronteggiare la crisi attuale con misure efficaci adottate a livello centralizzato.

Oggi l’Europa è a metà del guado: sul piano monetario, l’Unione ha introdotto una valuta in grado di misurarsi con le altre monete più forti presenti sui mercati (dollaro, sterlina, yuan). Gli Stati che hanno adottato l’euro si sono certamente avvantaggiati da tale operazione, ma, al contempo, è stata sottratta loro la possibilità di attuare «svalutazioni competitive» per rilanciare le esportazioni e rimettere in moto la produzione interna, nella convinzione che ciò conduce a un inevitabile aumento dell’inflazione e a un impoverimento generale sul medio periodo.

Sul piano economico, si è deciso anzitutto di dettare regole di condotta virtuose, fissando parametri rigidi per la riduzione del debito pubblico e il mantenimento di un rapporto costante tra il debito e il tasso di crescita (PIL). Tuttavia, all’imposizione di tali severe regole di bilancio – peraltro non sempre rispettate, neanche dai Paesi economicamente più solidi – non ha corrisposto l’adozione di iniziative unitarie per la crescita.
Con l’avvento della crisi, gli Stati membri più virtuosi – su tutti la Germania – si sono ulteriormente irrigiditi, chiedendo a Paesi in difficoltà di accelerare i loro processi di risanamento del bilancio in cambio di un sostegno finanziario a condizioni vantaggiose. È il caso della Grecia, che beneficia di una linea di credito proveniente dall’Unione europea (e in parte dal Fondo monetario internazionale) in cambio dell’attuazione di un programma di ristrutturazione radicale del proprio bilancio. Tale programma prevede un drastico ridimensionamento dell’intervento pubblico nell’economia attraverso la riduzione dei pubblici dipendenti e consistenti tagli alla spesa. Anche l’Irlanda e il Portogallo hanno ricevuto prestiti dall’Unione europea, sebbene in misura più contenuta, mentre l’Italia, pur non ricevendo aiuti finanziari, è costantemente «attenzionata» dalle istituzioni europee per il concreto rischio di default del proprio ingente debito pubblico.

Da più parti si sono sollevate condivisibili perplessità su questo modus operandi: si è criticato, anzitutto, il ritardo con cui l’Unione europea ha deciso di intervenire per fronteggiare la crisi del debito di alcuni Stati membri, ma anche l’eccessiva insistenza sulla linea del rigore nei conti pubblici dettata dalla Germania (ritenuta penalizzante perché depressiva) e le limitazioni imposte alla sovranità degli Stati membri dell’Unione europea senza un preventivo consenso democratico. E ciò vale sia per i Paesi – come la Grecia e, in parte, l’Italia – costretti a far accettare ai propri cittadini i gravi sacrifici derivanti dalle riforme di politica economica «suggerite» dall’Unione, sia per i Paesi erogatori dei finanziamenti – come la stessa Germania, che ha dovuto ottenere il «via libera» dalla propria Corte costituzionale per partecipare al Fondo salva-Stati istituito in seno all’Unione, trattandosi di un meccanismo accusato di aggirare il divieto di «salvataggio finanziario» degli Stati membri da parte dell’Unione (la cd. «no bail-out clause»), sancito dall’art.125 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

Va detto onestamente che, come spesso accade, la verità è nel mezzo: l’ossessione tedesca per il rigore nei conti pubblici ha origini antiche (Weimar) e non può certamente incolparsi la Germania se, da «prima della classe», pretende che tutti gli altri Paesi facciano i compiti a casa, prima di aiutarli e sostenerne la ripresa. D’altra parte, in questa fase, l’irrigidimento delle regole di bilancio imposte dall’Unione europea può determinare conseguenze ulteriormente depressive sulle economie nazionali, già messe a dura prova dalla crisi, e non è affatto escluso che tale tendenza possa ripercuotersi con un «effetto boomerang» anche sugli Stati che oggi sostengono fortemente questa linea (Germania e Francia) o su quelli che pensano di trarre profitto dalla debolezza delle istituzioni europee mantenendo una posizione più defilata (Gran Bretagna).
L’Italia si trova purtroppo in una posizione non troppo comoda: il suo fallimento – che non può in nessun caso essere auspicato da chiunque abbia a cuore le sorti del nostro Paese, date le gravissime conseguenze che ne deriverebbero per noi tutti – potrebbe generare una reazione a catena in grado di sconvolgere gli equilibri economici in seno all’Europa e di alterarne l’assetto anche a livello mondiale. Molte banche estere possiedono titoli di Stato italiani. Se l’Italia non fosse più in grado di sostenere il loro rimborso, ne soffrirebbero dapprima le banche detentrici, poi i rispettivi Stati di nazionalità, e, a cascata, le imprese e i piccoli risparmiatori, con conseguenze evidentemente drammatiche.

   L’unica strada da percorrere, quindi, è quella del risanamento. È un percorso difficile, denso di sacrifici, non meno che di incognite. Ma occorre tenere presente che i sacrifici che stiamo sopportando e quelli a cui andremo incontro non sono fatti a beneficio dell’Europa o delle banche, ma per garantire a noi stessi un futuro dignitoso e sereno.
C’è anche dell’altro: è probabile che la crisi attuale mascheri un graduale ma irreversibile cambiamento del nostro modello di sviluppo. L’invecchiamento della popolazione in tutto il continente europeo, la crescita aggressiva delle economie emergenti, il progressivo depauperamento delle risorse ambientali ed energetiche sono fattori che incidono in modo decisivo sulla tenuta dello Stato sociale così come concepito nel corso del XX secolo.
Le tradizionali garanzie del welfare non possono più ritenersi indiscutibili per le generazioni a venire. Dobbiamo perciò domandarci cosa siamo disposti a sacrificare in questo momento, affinché l’impalcatura di tutele e di diritti faticosamente costruita nei decenni precedenti non debba essere rapidamente «smantellata» per via dell’assenza di economie forti in grado di supportarla.
Gli Stati europei sono così messi di fronte all’esigenza di compiere un nuovo balzo in avanti per disegnare il welfare di domani, ridurre le disuguaglianze, accrescere l’occupazione e migliorare le condizioni di vita generali, assicurando il rispetto dell’ambiente.

Per realizzare tutto questo, è indispensabile cogliere da subito i segnali di «affaticamento» che le nostre democrazie hanno mostrato in occasione della crisi. Solo una maggiore partecipazione popolare potrà garantire, in questo passaggio davvero cruciale, un approdo sicuro al futuro del nostro continente, consapevoli che l’Europa uscirà indenne da questa situazione se saprà accrescere in modo decisivo – e in tempi brevi – il livello di coesione politica e tradurlo in nuove forme giuridiche e istituzionali.
 

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