Ripercorrendo le esperienze di governo che si sono susseguite dalla fase di introduzione del maggioritario si possono evincere due costanti che hanno ostacolato la capacità di decisione degli esecutivi e la loro stabilità: da un lato l’eterogeneità delle coalizioni, entrambe costituite tanto da forze moderate e caratterizzate da una cultura di governo, quanto da componenti estreme e demagogiche, portatrici di istanze localistiche o comunque parziali, dall’altro lato la reciproca delegittimazione che ha precluso momenti di costruttiva collaborazione nella necessaria ridefinizione di regole fondamentali condivise. Dunque un bipolarismo depotenziato da questi due vizi di fondo, segnato dalla sterile e infinita polemica sulla figura di Berlusconi e sull’effettiva vocazione democratica dei post comunisti.
La scena finale di questo dramma o di questa commedia può ravvisarsi nelle dimissioni di quel governo – il quarto guidato da Berlusconi – che era stato costituito nel maggio 2008 in virtù di un largo successo elettorale del centrodestra e della conseguente acquisizione di una vasta maggioranza parlamentare e che ormai, dal momento della rottura tra Berlusconi e Fini, nell’autunno 2010, era rimasto privo di quella maggioranza politica uscita dal voto e continuava a vivacchiare in virtù di numeri risicati conseguiti mediante singole adesioni e sparute aggregazioni contingenti in una condizione di ormai cronica precarietà. Troppo poco per affrontare le tempeste della speculazione finanziaria e i processi di riforma richiesti dai partners europei, dato anche il logoramento dell’immagine del premier e l’atteggiamento recalcitrante del suo principale alleato, la Lega, nei confronti di alcune delle misure sistemiche richieste per affrontare la crisi.
Anche senza mozione di sfiducia il governo Berlusconi ha dovuto gettare la spugna e la parola è passata ai tecnici, sostenuti poi in Parlamento dai due maggiori partiti e dal Terzo Polo. Solo con una corresponsabilizzazione comune della maggiore forza della disciolta maggioranza legittimata dalle urne e del maggiore partito di opposizione e con un esecutivo costituito da uomini e donne privi di preoccupazioni di carattere elettoralistico appariva infatti possibile avviare una politica di rigore, di sacrifici e di sfida a interessi consolidati. Ma la delega ai tecnocrati, forse necessaria, rappresenta soltanto una fase di tregua, una soluzione d’emergenza. Presto i politici dovranno assumere di nuovo responsabilità dirette, confrontarsi su progetti di governo. Al più tardi nella primavera del 2013 i tecnici passeranno loro nuovamente il testimone. I politici devono prepararsi a quel momento che non è poi così lontano. Non possono dormire sugli allori di Monti, sempre che di allori si tratti, come tutti ci auguriamo.
Prepararsi non significa riproporre il vecchio quadro bipolare come lo abbiamo conosciuto nell’ultimo ventennio, il cui fallimento è stato certificato da troppi insuccessi e contraddizioni che riguardano destra e sinistra e che anche in questi giorni è confermato dalle contrastanti posizioni tra PD e IDV nei confronti delle misure del governo Monti e tra PDL e Lega, nel campo opposto. Le due vecchie coalizioni appaiono definitivamente franate anche in considerazione della diversa valutazione emersa al loro interno nei confronti delle ricette anticrisi e quindi di temi programmatici ben precisi, di contenuti socio-economici. Una diversa valutazione che rende improponibile l’idea di una ricostituzione di queste coalizioni, sorte a suo tempo più per contrastare qualcuno che per proporre obiettivi costruttivi comuni! E’ tempo di ipotizzare e perseguire un diverso modello bipolare fondato su coalizioni omogenee al loro interno e coese sulla visione dello Stato e sugli obiettivi programmatici. Formazioni ispirate da cultura di governo e in grado di sottrarsi al condizionamento delle estreme. Le divisioni di oggi sono artificiose, culture affini sono presenti all’interno di partiti che si sono collocati su posizioni contrapposte, almeno fino all’avvio della presente fase di “raffreddamento” generata dal governo “tecnico”.
Tali divisioni erano derivate dal fenomeno dell’antiberlusconismo che ha dominato una stagione ormai al tramonto. Oggi forse si potrebbe ricostruire una casa comune dei moderati, dei liberali, dei cattolico-democratici, anche sulla scia del seminario di Todi che ha preceduto di qualche giorno la formazione del governo Monti. Una formazione che si riveli competitiva rispetto a una sinistra ancora tendenzialmente di classe e statalista, inevitabilmente protesa a riaggregarsi sotto la spinta di voci autorevoli, Vendola, Bindi, Camusso, Fassina, solo per esemplificare. Mentre una parte del PD potrebbe ora trovare delle convergenze con settori del Terzo Polo e anche del PDL. Questo processo di riaggregazione su entrambi i fronti potrebbe portare a due opzioni alternative chiare e definite, comprensibili agli elettori nelle distinzioni come nelle analogie e consentire loro una scelta convinta e consapevole. Due opzioni che si rispettino e si legittimino a vicenda, in grado di riformare insieme le regole fondamentali e differenziarsi invece nelle concrete priorità di governo, per essere poi serenamente giudicate dagli elettori, in base ai risultati del proprio operato.