Risarcimento dei danni per i crimini nazisti della seconda guerra mondiale: la Corte internazionale di giustizia dà torto all’Italia

di | 5 Mar 2012

Il 3 febbraio scorso, la Corte internazionale di giustizia dell’Aia ha stabilito che l’Italia ha violato il diritto internazionale, per non aver riconosciuto alla Germania l’immunità nell’ambito dei giudizi di risarcimento dei danni derivanti dai crimini commessi dalle truppe naziste durante la seconda guerra mondiale.
 

Palazzo della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia
La decisione della Corte pone fine – almeno per il momento – a una lunga vicenda giudiziaria iniziata nel 1998, quando un cittadino italiano, il Sig. Luigi Ferrini, decise di citare in giudizio la Repubblica federale di Germania innanzi al Tribunale di Arezzo per ottenere il risarcimento dei danni subiti nel corso del secondo conflitto mondiale in conseguenza della deportazione sul territorio tedesco a fini di lavoro forzato.
La Germania, costituitasi in giudizio, pur riconoscendo la gravità dei crimini compiuti dall’esercito tedesco durante l’occupazione, eccepì la propria immunità dalla giurisdizione italiana, in conformità ai principi del diritto internazionale generale. L’eccezione venne accolta sia dal Tribunale di Arezzo, sia dalla Corte d’Appello di Firenze, alla quale il Sig. Ferrini si era rivolto dopo la pronuncia del Tribunale. 

Nel 2004, tuttavia, la Corte di cassazione italiana, con una decisione radicalmente innovativa, sostenne che la Germania non potesse invocare alcuna immunità nella fattispecie, perché la gravità dei crimini commessi dalle truppe naziste nei confronti del Sig. Ferrini giustificava in ogni caso l’esercizio della giurisdizione da parte dei giudici italiani. Secondo la Corte, la regola dell’immunità avrebbe dovuto «cedere» di fronte all’esigenza di sanzionare illeciti di così grave natura e di riconoscere un risarcimento adeguato al Sig. Ferrini per i danni subiti.
La cassazione ha confermato il proprio orientamento anche in alcune pronunce successive, sempre sostenendo la prevalenza del divieto imperativo di commettere crimini internazionali sul riconoscimento dell’immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione interna. Tale posizione, però, è rimasta pressoché isolata, perché la grande maggioranza delle altre Corti europee chiamate a pronunciarsi su questioni analoghe ha continuato a ritenere applicabile la tradizionale regola dell’immunità.

   Nel 2008, la Germania, per ottenere un chiarimento definitivo sul punto di diritto, si è rivolta alla Corte internazionale di giustizia, accusando l’Italia di aver violato il diritto internazionale per effetto delle reiterate pronunce della Corte di cassazione. Dal canto suo, l’Italia ha sostenuto la correttezza dell’orientamento della Suprema Corte, che aveva esercitato la propria giurisdizione contro lo Stato tedesco in piena conformità al diritto internazionale.
Va detto subito che la sentenza della Corte dell’Aia – che all’apparenza potrebbe lasciare disorientati, perché favorevole a concedere l’immunità anche in caso di crimini di guerra così efferati – poggia su un ragionamento solido, ancorché legato a una visione delle relazioni giuridiche internazionali piuttosto conservatrice. 

Come cittadini di uno Stato democratico, siamo abituati a considerare l’immunità alla stregua di un privilegio, spettante a determinate categorie di persone in funzione del ruolo da esse ricoperto. In linea di principio, l’immunità è finalizzata a consentire a coloro che ne beneficiano di svolgere la propria attività istituzionale senza essere incriminati (o privati della propria libertà) per il solo fatto di svolgerla, come accade nei regimi totalitari.
Nel diritto internazionale, invece, l’immunità riconosciuta agli Stati ha una valenza completamente diversa: si tratta di una regola consuetudinaria che discende direttamente dall’assetto «orizzontale» delle relazioni internazionali e, come tale, spetta indifferentemente a tutti i consociati. La comunità internazionale, infatti, è tradizionalmente retta dal principio di uguaglianza sovrana, in base al quale nessuno Stato può ritenersi superiore agli altri sul piano giuridico-formale (ovviamente, sul piano politico, economico, militare, ecc. la situazione è ben diversa). Per lo stesso motivo, nessuno Stato è legittimato a convenire in giudizio un altro Stato innanzi a propri Tribunali senza il relativo consenso (par in parem non habet iudicium), a meno che non si tratti di rapporti giuridici di mero rilievo privatistico.

Dopo le atrocità della seconda guerra mondiale, il diritto internazionale ha conosciuto un’evoluzione, che ha condotto al riconoscimento di un ristretto nucleo di norme inderogabili poste a protezione di valori considerati fondamentali dalla comunità internazionale, come la tutela dei diritti dell’uomo e il divieto di compiere crimini internazionali. Questo percorso evolutivo, tuttavia, non si è ancora perfezionato del tutto. Ad esempio, non è ancora chiaro a chi spetti la competenza a giudicare sulla violazione di tali norme inderogabili. Così, in questa situazione di incertezza, gli Stati accusati di non rispettare i diritti umani o di commettere crimini continuano a invocare l’immunità qualora vengano citati in giudizio innanzi ai Tribunali interni di altri Stati.
 


Ingresso del campo di concentramento nazista di Auschwitz
La Corte di cassazione italiana ha tentato di superare l’ostacolo costituito dall’immunità sostenendo che l’obbligo di repressione dei crimini internazionali dovesse ritenersi prevalente, proprio perché previsto da una norma imperativa. Tuttavia, la Corte dell’Aia ha ravvisato in tale ragionamento un errore di diritto, affermando che il conflitto tra le due regole è solo apparente, perché esse rilevano in ambiti diversi, l’uno sostanziale (il divieto di commettere crimini internazionali) e l’altro procedurale (l’immunità) e non possono, perciò, essere messe a confronto.

La sentenza obbliga lo Stato italiano a far cessare ogni azione di risarcimento avviata nei confronti della Germania per i crimini commessi durante l’occupazione nazista. Ciò significa che, in futuro, simili richieste dovranno essere rivolte a organi giurisdizionali internazionali (ammesso che questi ultimi si dichiarino competenti), o promosse nell’ambito di negoziati bilaterali, condotti a livello diplomatico.
La percezione diffusa è che, con questa pronuncia, il diritto internazionale abbia fatto un passo indietro, dopo le prospettive di sviluppo aperte della Corte di cassazione. In realtà, sarebbe più esatto affermare che il diritto internazionale non ha fatto nuovi passi avanti, essendo rimasto fermo all’applicazione di una delle sue regole più tradizionali e consolidate.

A ben vedere, però, le cose non stanno nemmeno così. Le pronunce della nostra Suprema Corte, infatti, hanno avuto il merito di rilanciare il ruolo dei giudici interni nella soluzione delle controversie tra Stati, dati gli evidenti limiti operativi dei mezzi giudiziari previsti in ambito internazionale, dove l’esercizio della potestà giurisdizionale non è mai obbligatorio, ma resta subordinato all’accettazione delle parti.
Inoltre, se la soluzione prospettata dalla Corte di cassazione non può ritenersi coerente con le regole del diritto internazionale oggi in vigore, non è detto che tali regole non possano mutare nel tempo. Ciò che oggi rappresenta una semplice ipotesi teorica (l’impossibilità di invocare l’immunità quando si è accusati di aver commesso un crimine internazionale), infatti, in futuro potrebbe divenire norma giuridica. Se e quando questo accadrà, siamo sicuri che i nostri giudici sapranno farsi trovare pronti ad applicarla.