“Le forme concrete dell’invisibile”. Intervista a Pier Augusto Breccia
Così che, anche la mia vita debba essere basata sul fatto che l’essere si dia non solo nel campo intellettivo nel momento della rivelazione cifrata del quadro, ma anche nel campo morale, nel campo dell’azione. Per cui non mi è lecito pensare che sia io il programmatore della mia esistenza d’artista, come non mi è lecito pensare che sia io il programmatore dei miei quadri. Quindi devo credere, anche nella vita, di poter contare su un intervento, che io non conosco, e che dovrà accadere come accade sul foglio bianco, quando faccio il quadro, che si realizza l’incontro con la persona giusta, che prenderà su di sé il compito di portare il messaggio agli altri, nel mondo. Cosa che non è richiesta necessariamente all’artista.
Io ritengo che questo sia un tempo di catacomba per la verità, ma dovrebbe essere sempre così, perché la verità non è mai qualcosa che va di moda. Non è mai esistito un tempo in cui va di moda la verità.
Anche quando apparentemente va di moda perché c’è dogmatismo, come nella cattolicità nella cristianità nel medioevo, per cui sembrava che andasse di moda, ma in effetti chi aveva la verità doveva vivere nelle catacombe. Per cui la verità è sempre qualcosa che esce da una catacomba attraverso un metodo che non è un metodo, che è un evento, come direbbe Heidegger, cioè qualunque linguaggio di verità è sempre comunque da considerarsi un evento, e-viene viene da, la verità emerge per un evento che non è programmabile.
Quando mi chiedono cosa farai fra un anno, io non lo so, è dove l’essere mi porta.
Qualunque cosa io faccia in questi frangenti, può anche essere sbagliata, o dannosa, io devo solo avere la continua disponibilità. La mia paura è di perdere questa fede e di voler fare per conto mio, e facendo così ritardare e falsare il progetto di una volontà trascendente.
E’ difficile restare in questa dimensione?
E’ difficile perché il mondo è fatto di cose che appaiono come fatti, il fatto domina sull’interpretazione, in una visione ermeneutica non esistono fatti ma solo interpretazioni, quindi è sempre il soggetto a creare il fatto, attraverso un’interpretazione personale. Però il fatto ha talmente forza nella sua apparenza che può soffocare, in molti momenti, tende a soffocare il mistero della cosa, per cui non la trasformi mai in un fatto, è difficile prescindere dal fatto che il fatto non è un fatto.
E’ semplicemente un’interpretazione e questo pesa a volte in maniera tale da cancellare quella disponibilità o come direbbe Heidegger quella apertura su quell’abisso su cui l’essere si rivela. Ora nel momento in cui tu lo cosifichi e fai della vita un progetto basato sui fatti e non su interpretazioni, vuol dire che rifiuti quell’atteggiamento di disponibilità ad intendere ciò che invece va oltre l’apparenza e che ti viene dato gratuitamente dall’essere.
Conservare la cifra significa rinunciare a farsi schiacciare dal fatto, perché la cifra ha sempre un rinvio e anche se un fatto avviene ed è apparentemente negativo, sei comunque tenuto, se sei un uomo di fede, a guardare in quel negativo e a cercare il significato che può assumere, per andare oltre la negatività di se stessi. Quindi non lasciarti schiacciare dall’umiliazione apparente, dall’insuccesso, dal problema dell’economia o del denaro. Un ermeneuta sa che anche in quello, c’è una cifra che rinvia a qualcos’altro da sé e quindi forse cercare di vederlo come un percorso voluto dall’essere, perché tu possa raggiungere una determinata meta. Conservare questo atteggiamento fideistico non è facile in certi momenti, perché il fatto ha una pesantezza, mentre la cifra ha, a volte, il senso di una inconsistenza visionaria – puoi dire allora “se matto” – perché la cifra non è basata sulla logica, è basata su un atteggiamento di apertura. Del resto tutta la vita è irrazionale se vogliamo essere ancora più larghi.
Non sappiamo neanche perché ci siamo, da dove veniamo, e perché c’è l’universo invece del nulla.
C’è gente che ha paura della morte e non si rende conto che la vita è lo stesso mistero, il mistero della vita è tutt’uno con quello della morte. Gli uomini che credono nei fatti hanno chiarezza su tutto e questa loro chiarezza li porta alla cecità assoluta, sulla radice profonda della loro esistenza, che non è solo quella dell’uomo in quanto essere umano, che è già straordinaria rispetto al resto della natura, ma anche al senso dell’esistenza stessa dell’universo. In questo contesto fermarsi al fatto, lasciarsi condizionare dalla logica è del tutto aberrante. Alla fine la fede è proprio questo il superamento. Tu ficchi la logica laddove è nell’irrazionale la verità.
Non parlo solo di fede religiosa ma dell’attitudine e dell’apertura continua al mistero, che poi lo chiami Dio, lo personalizzi, lo entifichi, può essere un’esigenza dell’anima ma è un errore filosofico. Dal punto di vista umano è un’esigenza perché è più facile parlare di qualcosa a cui tu dai un nome, invece di qualcosa che invece sai che è sempre oltre te stesso e che quindi non puoi fermare. Quindi nell’irrazionalità più totale dell’esistenza dell’universo del cosmo e del mondo e dell’uomo noi vogliamo spiegare tutto attraverso una logica che riguarda un pezzetto di tempo e di spazio nel quale viviamo. Perdiamo la capacità di rimanere aperti a quel mistero che invece è l’unica garanzia del fatto che noi ci siamo. Se io devo definire la vita o l’esistenza la definisco con una parola sola, il miracolo dell’esistenza: è solo un miracolo che noi ci siamo. Perché non c’è nessuna logica umana.
Puoi introdurre la logica all’interno del miracolo? Sì se tu riesci a vivere le due dimensioni, in maniera che siano costantemente collegate perché allora sai, che quando decidi, decidi in virtù di una cosa che già ha deciso per te, prima ancora che tu ci fossi quindi segui una volontà trascendente e sei in un ordine cosmico diverso da quello delle piccole decisioni quotidiane, che sono dettate dagli altri ma non da te, ma il discorso si fa talmente largo…
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Non hai una possibilità linguistica che preveda il miracolo?
Per dialogare con l’essere non è sufficiente un linguaggio convenzionale. Il linguaggio convenzionale alla radice è sempre e comunque un linguaggio rivelatore dell’essere nel momento in cui è ancora cifra, quando la parola più banale, la parola mela non è ancora la convenzione della forma a cui corrisponde, è qualcosa di cifrato, deve camminare nel mondo, quindi il linguaggio basato sulla parola, come dice la sua etimologia, parola significa parabola. La parabola è una curva ascendente e discendente, nella fase cifrata la parola è ascendente, va ancora verso il cielo, è aperta all’interpretazione, poi cade sul mondo e significa quello che significa e nient’altro che quello.
Poi quando trasferiamo questo discorso ai concetti, alle realtà dello spirito, la parabola la vedi, vedi quanto ascendente può essere quella parola, se ne recuperi il silenzio da cui è nata, nella sua radice, nell’etimologia, nel suo uso nella storia, poi la decadenza per cui diventa, nel vocabolario comune, un termine quasi insignificante. Che il linguaggio convenzionale sia all’origine comunque un linguaggio dell’essere è certo, ma che poi nell’uso che noi facciamo nelle convenzionalità non possa più essere rivelatore è anche un fatto scontato nell’esperienza. Allora quali sono i linguaggi che ci restano, che rimangono perennemente aperti perché sempre cifrati, sono quelli che portano in sé la radice della novità assoluta, la radice dell’originalità che è quella che senza di te quel linguaggio non esisterebbe? Quindi che nessuno l’ha mai detto prima e nessuno lo ha mai letto prima, quindi è chiamato a significarlo. I linguaggi che nascono così sono ancora quelli attraverso cui l’essere si dà e sono linguaggi irrazionali o prerazionali perché non nascono dalle cose che già ci sono. Che cosa sono questi linguaggi? Il linguaggio della fede che trascende il fatto e guarda ad un oltre, che è qualche cosa di non insegnabile, perché ognuno ha la fede nel modo in cui lui è.
Essere un uomo che ha fede e contattare l’essere non è insegnabile da nessuno. La cifra è tua, non puoi immaginarla come un linguaggio convenzionale, ma è lì che l’essere porta sul mondo qualcosa che non c’è, ora il linguaggio della fede implica non soltanto una fede religiosa, ma quell’atteggiamento e quell’apertura a ricevere e a testimoniare qualcosa che senza di te non esisterebbe e che ha un valore comunicativo, perché è comunque un linguaggio non è un urlo o uno strillo.
Un linguaggio che sia matematico, fisico, artistico, musicale, comunque è un linguaggio che fa nascere una realtà.
Certo il linguaggio dell’essere non è soltanto tuo, è linguaggio, l’essere è l’essere dell’intero cosmo della materia, dello spirito di qualunque cosa tu vivi come esperienza. Tutto quel che ha radice nell’essere in questo mistero è aperto a tutti, è a tutti leggibile, sempre che si faccia un atto di accoglimento e di umiltà e un piccolo sacrificio, che è quello di usare in fondo la tua intelligenza, che del resto ti renderebbe anche più nobile di un animale, perché proporre una teoria della relatività sul mondo, che è fatto di simboli, di concetti, di numeri, apparentemente riservati a pochi, alla fine deve essere decodificato da qualcuno. Ora nell’arte è più facile perché passa per una via emozionale, qualunque linguaggio creativo nell’arte ha una valenza estetica, per cui non ha le difficoltà di chi esprime l’essere attraverso formule matematiche, ma anche le scienze non umanistiche testimoniano i darsi dell’essere nei linguaggi a loro propri, che si comunicano attraverso l’intervento di alcuni decodificatori specialisti.
Tutto il mondo della realtà è fondato sul rivelarsi dell’essere attraverso linguaggi, quello dell’arte è il più aperto, quello della fede personalissimo, con il quale ognuno di noi può aprirsi al mistero, che non è diverso da quello della scienza, quando è creativo e poi quello dell’amore.
L’amore per il prossimo qualunque esso sia, non è insegnabile da nessuno e l’amore tutti sappiamo che cos’è, ma nessuno lo vive allo stesso modo quindi più autentico più originale più cifrato non esiste.
Se tu perdi questi linguaggi entri nella convenzionalità di un linguaggio che originariamente nasceva da Dio, ma che è diventato un prodotto dell’insegnamento umano; io quando vado a scuola e mi dicono che quella cosa si chiama mela, la mela si chiamava così anche prima che io nascessi, non è che l’ho dovuta creare io.
Nessuno chiama le cose col proprio nome e normalmente non si scende nel concreto?
Gli artisti portano un linguaggio con il quale tu puoi dialogare con il mondo di qualcosa che nel mondo non ci sarebbe senza quel linguaggio e cioè la dimensione spirituale.
La fondazione della tua umanità su quel mistero che è sempre pronto a ritrarsi o a rivelarsi nello stesso tempo, perché poi dipende da te, in nessun altro campo vale così tanto l’atteggiamento ermeneutico, come nel caso del prodotto artistico, quando è prodotto dell’essere, perché essendo un linguaggio cifrato non è mai un fatto che ti viene raccontato, perché quel fatto non lo troverai mai riscontrabile sul mondo.
Io uso una frase molto espressiva per dire questo, io propongo delle forme concrete dell’inesistente; è una provocazione in termini logici, in effetti la mia concretezza formale non corrisponde né a fatti né a cose. Pur essendo concreta è una forma di linguaggio decosificata, la cosificazione è affidata all’interprete. L’interpretazione è tipica dell’atteggiamento ermeneutico nei confronti della verità. E’ qualcosa che ti conduce sempre al prossimo momento, anche un linguaggio che credi di aver decodificato come nel caso dell’arte ermeneutica, il giorno dopo può cambiare e assumere altri significati, arricchendo quel significato che esteticamente ti conduce ad un’emozione di gioia o di contrizione, ecc., poi l’opera comunica comunque ciò che è universalmente accolto come tale.

Nonostante tutto.
Il nero con le stelle non è la notte stellata che si vede dalla terra attraverso la nebbia dell’atmosfera, un nero assoluto e una luce assoluta, quel cielo stellato non rappresenta una notte, ma la luce del cosmo, che è luminoso anche nel suo nero; infatti qualsiasi figura compaia è sempre luminosa, di una luminosità che non esisterebbe, che è un altro tipo di notte che è quella della luce universale. E’ lo sfondo cosmico su cui si svolgono le cifre della mia opera. Per esempio Magritte quando ne fa una è la notte di questo mondo, le mie notti vanno oltre l’inconscio dovrebbero aprire alla speranza, all’infinito, all’universale, a quello che tu conosci, che ti comprende, ma non possiamo comprendere. Noi non possiamo comprendere il cosmo, siamo compresi dal cosmo; io quando guardo un cielo stellato penso che sia un onore pensare il cosmo che senza di te non potrebbe pensarsi.
C’è un rapporto con la tragedia?
Questo atteggiamento della cultura contemporanea, che evita di confrontarsi con questo mistero dell’essere che è anche il mistero dell’universo, è così contraddittorio con l’esperienza che la cultura contemporanea ha fatto di questo. Immagina che siamo la prima generazione che ha visto la terra da fuori, quando l’astronauta va in uno spazio nero senza gravità, senza dimensioni del su, del giù, del destro, del sinistro, diventa un’esperienza, è quasi un fatto aperto a tutte le interpretazioni; una generazione che è riuscita a vedersi per la prima volta su un mondo azzurro che gira nello spazio confrontandosi con distanze infinite e che poi si metta a fare dello scientismo presuntuoso, della logica, della razionalità, dell’economia del programma è contraddittoria in se stessa. Mi chiedo se l’umanità è diventata stupida, oppure certe cose vengono mascherate in modo tale da farle sembrare come delle cose umane di banale amministrazione. Io non sono stato mai su un’astronave, ma ci sto nei miei quadri, per me è un’esperienza che ho già vissuto, mi domando come mai un mondo in cui la scienza ha aperto le porte del mistero si possa pensare che le abbia chiuse, questo scientismo positivista e questo atteggiamento di rifiuto del mistero che si chiama nichilismo, che toglie senso ad ogni cosa fermandola nel tempo, per cui il distacco tra scienza e fede io non lo vedo. Il mistero della cifra è contraddittorio all’esperienza. Oggi la scienza è una via per aumentare ancora di più e spostare sempre oltre il senso, si tratta di conservare l’immaginazione, che difetta in questa società che ha perso la capacità di immaginare e in tutte le cose vede dei fatti banali e non riesce a superarli, non riesce a vedere a cosa rinvia tutto questo.
L’arte a questo dovrebbe servire se non ci arriva la scienza e non ci arriva l’esperienza, e invece pare che l’arte sia caduta in quelle forme nichilistico negazionistiche.
Non vedo l’esercizio dell’immaginazione creativa, vedo qualcosa fatto a tavolino, al massimo una trovatine, delle stravaganze, di rivelazione ne vedo poca.
Tutto questo implica una discesa in se stessi, un silenzio che pochi sperimentano?
Si tratta di abbassare e volgarizzare la trascendenza appiattendola; invece di innalzare il livello dell’uomo, per portarlo alla percezione di questo, c’è la voglia di abbassare il trascendente, non di alzare l’uomo. Era un atteggiamento antireligioso in genere, questo odio quasi blasfemo, non poter nominare la parola Dio, il nichilismo è stata una grande cosa, è stato, perché senza questo non ci sarebbe stato il passaggio all’ermeneutica, il nichilismo è stato il momento del trapasso, basta facciamo fuori i dogmi, la metafisica, tutto ciò che ha un senso ultimo va eliminato, ecc.
Dopo questo cosa resta? Hai legato qualunque senso all’esistenza, alla realtà. Non ti interroghi. Il nichilismo è un transito fra una verità che si dava secondo alcuni schemi e una verità che si dà con sensi nuovi e moderni, il passaggio dalla tradizione metafisica all’approccio ermeneutico è dovuto al fatto che in mezzo c’è l’interruzione finale del momento dogmatico tradizionalista senza il quale non potrebbe esistere un nuovo modo di darsi dell’essere.
C’è molta più responsabilità nell’interpretare il mondo anziché farselo dare preconfezionato in un barattolo chiuso da un balcone di una chiesa. Allora in certi momenti stai nella catacomba e prepari l’opera e quando uscirà è perché l’essere vuole che esca. Questo atteggiamento fideistico, non un atteggiamento cretino, è di chi ha compreso e capito cosa in fondo l’esistenza è, essendo un miracolo, è lui che ti sovrasta non sei tu che puoi fare un miracolo.
Lascia che avvenga e abbi fede che avvenga, non è detto che avvenga quando tu sei vivo, non è detto che corrisponda al tuo successo, a quanto guadagni, a quanto vendi, ecc.
Sono misure che non riguardano il miracolo, non si applicano a questo. Sono rammaricato a volte non avere lo spazio, sentirsi rifiutati, a volte l’umiliazione, poi ci sono dei momenti di accoglimento di successo che restano momenti isolati, che servono come la manna di Mosè.
Se tu ti convinci che il tuo lavoro è come essere un operaio di Dio, costruisci qualcosa che ha radici altrove, costruire un’opera senza doverla legare al riscontro immediato.
Non voglio dire che si debba morire di stenti, avere il mezzo necessario per portare avanti il lavoro, anche se poi sulle opere di Dio qualcuno speculerà.
Tutto questo fa parte della decadenza della parola, poi diventa luogo di immanenza nel giorno in cui si cominciano a fare regole, una scuola, degli schemi, è finita resta semplicemente un linguaggio, quindi come tale è unico, irripetibile, fuori del tempo.
BIOGRAFIA
Pier Augusto Breccia nasce a Trento il 12-4-1943. Dal 1949 è a Roma, dove compie l’intero curriculum dei suoi studi.
1961 – Consegue la maturità classica presso il Liceo Giulio Cesare e si iscrive alla Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica.
1967 – Gli viene conferita, con lode, la prima Laurea in Medicina e Chirurgia della nuova Facoltà.
1967 – 1969 – Soggiorna ripetutamente a Stoccolma, dove lavora presso l’Istituto di Chirurgia Toracica e Cardiovascolare del Karolinska, sotto la direzione del Prof. V. O. Björk.
1969 – 1983 – Si dedica a tempo pieno alla Cardiochirurgia presso l’Università Cattolica di Roma. In questi anni consegue tre specializzazioni chirurgiche, pubblica circa 50 lavori sulle principali riviste italiane ed estere, consegue l’Idoneità Ospedaliera a Primario di Cardiochirurgia ed infine l’Idoneità a Professore Associato. Esegue oltre 1000 interventi cardiochirurgici e collabora a costituire la Divisione Autonoma di Cardiochirurgia presso il Policlinico Gemelli.
1977 – Scopre del tutto casualmente una capacità di disegnare che non supponeva di possedere.
1978 – 1979 – Si esercita per diletto a disegnare «dal vero» nei ritagli di tempo concessigli dalla sua professione.
1979 – 1981 – Crea una serie di disegni che vengono selezionati per il suo primo libro e la sua prima mostra con il titolo «Oltreomega», presentata nell’ottobre-novembre 1981 da Cesare Vivaldi.
1981 – 1983 – Il successo ottenuto con la sua prima presentazione lo stimola a proseguire sempre più intensamente il suo lavoro, con rinnovati consensi.
Aprile 1985 – Dopo due anni di “aspettativa” rassegna le dimissioni dalla sua posizione di cardiochirurgo per dedicarsi completamente alla pittura.
1985 – 1996 – Risiede e lavora prevalentemente a New York, da dove si sposta ripetutamente in Europa ed in altri Stati d’America, raccogliendo un crescente consenso internazionale.
1990- 1992 – Si dedica principalmente all’elaborazione del monumentale volume “Animus-Anima”, pubblicato da “Vita e Pensiero” (Milano).
Nell’ottobre 1996, pur conservando i suoi legami con New York e con gli U.S.A., decide di ritornare in Italia per dare l’avvio ad un programma espositivo in spazi pubblici o privati di interesse eminentemente culturale. Allestisce, allo scopo, una collezione permanente delle sue opere, visitabile per appuntamento, presso il suo Studio-Atelier in Roma.
1998 – 1999 – Si dedica principalmente all’elaborazione del volume “L’altro libro: il linguaggio sospeso dell’autocoscienza” (Ed. Di Renzo – Roma).
2000 – 2002 – Prepara, in collaborazione con Marisa del Re (New York Master Exbibitions), la grande rassegna “Il Posto dell’Utopia” per il Complesso del Vittoriano di Roma e il Palazzo Ziino di Palermo.
2003 – Presenta, per la prima volta in Europa, presso l’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles, sua pittura con il nome di “Ermeneutica”.
2004 – Pubblica il suo libro-manifesto “Introduzione alla pittura ermeneutica”, in preparazione per le mostre successive.