In questo senso ci pare che l’indizione dello sciopero Cgil sia stato quanto meno precipitoso e solitario, finendo per apparire un errore di metodo e di sostanza. Ci sono stati anni in cui la proclamazione di uno sciopero generale provocava al suo annuncio le dimissioni del governo in carica. Ma erano gli anni della cosiddetta prima repubblica che mostrava per molti versi l’inadeguatezza della politica e forse anche uno strapotere sindacale che non ha giovato né ad un migliore sviluppo del funzionamento delle istituzioni democratiche, né al rafforzamento del ruolo autonomo del sindacato, né ad un suo migliore e più efficace rapporto con i partiti, pur nella loro naturale diversità di ruolo e di funzione. Non a caso l’atteggiamento della Cgil rischia di appesantire e complicare la posizione del partito democratico. Già con Rosy Bindi a Ballarò e Bersani a Porta a Porta prendeva le distanze dal governo, alzando le barricate con il richiamo insistito all’autonomia del Parlamento e al diritto di introdurre modifiche migliorative. Giusto e vero, ma forse le considerazioni e le riserve di vario tipo, su un testo che non aveva avuto una stesura definitiva ed era privo in ogni caso dell’approvazione del Consiglio dei ministri, finivano per assumere il significato di un contrasto politico che complica tutto.
Le scelte del governo difficilmente infatti possono essere viste come distanti dalle posizioni del professore Iachino, dell’ex ministro Damiano, per non dire dell’ex ministro Treu. Quale linea insomma esprime il partito di Bersani e della Bindi? O torna a riemergere una qualche forma se no non di subordinazione, di timore reverenziale verso la Cgil? Insomma si assisterebbe ad una sorta di sbarramento simmetrico per cui la proclamazione precipitosa dello sciopero generale nasce dall’esigenza di neutralizzare le fughe in avanti dei metalmeccanici di Landini, mentre la dirigenza Pd teme di apparire troppo distante dalle posizioni della Cgil.
Sono problemi non nuovi per la sinistra italiana. Ma oltre al lucido disegno del presidente Napolitano, il governo Monti non è stato voluto fino in fondo proprio dal Partito Democratico? Che senso ha invischiarsi nelle vecchie tentazioni di timori per eventuali scavalcamenti a sinistra, di fronte all’acutezza della crisi e al carattere qualificante della riforma per il mondo del lavoro e le innegabili connessioni con la cruciale partita per la crescita e lo sviluppo? Perché allora non temere la Lega, Vendola o Diliberto fotografato insieme ad una movimentista in maglietta con la scritta : “Fornero al cimitero” o al Vietnam parlamentare minacciato da Di Pietro? Il vecchio Pietro Nenni ripeteva spesso ai suoi compagni della sinistra socialista e ai cugini comunisti: “Il meglio è nemico del bene”. Dovrebbe valere anche per l’oggi. E il partito democratico che si candida a governare il dopo Monti, dovrebbe tenerne conto.