Il senso etico del lavoro

Nel mio “dire” faccio appello alle certezze, invero non granitiche, ma contaminate con la polvere degli anni, che fortunatamente non produce solo oblio ma tempera caratteri e irrobustisce speranze che, spero, possano sollecitare le vostre menti ad altre riflessioni.

Fui mosso, negli anni della mia gioventù, da un bisogno di conoscere cose nuove, vivere le stagioni della vita osservandole con la lente del lavoro, per seguire “virtute e canoscenza”. Diversamente non sarebbe potuto essere: “considerando la nostra semenza” ovvero muovendo da questi luoghi in cui il lavoro dei pescatori aveva una sua regalità, una sua filosofia. Oserei dire con padre Dante, ma con l’occhio rivolto a Primo Levi, che resisteva ad Auschwitz anche grazie al ricordo di quei versi avendo come incipit: “Fatti non foste a viver come bruti” (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno XXVI, 119-120).

Ecco nel mio girovagare, come lavoratore italiano all’estero, come professionista che ha ricoperto e ricopre ruoli di responsabilità, ho coltivato il valore della dignità lavoro nel suo senso etico, di liberazione, attento ad evidenziare gli aspetti relazionali, sociali, del rispetto delle tutele, del riconoscimento del ruolo delle persone impegnate in un’attività di scambio. Negli anni sessanta talune intemperanze nei confronti di vertici aziendali per difendere le proprie sacrosante idee, potevano essere concesse, poiché si aveva la certezza che la passione, accompagnata da etica, sapere, competenza era salvaguardia del bene comune, veniva riconosciuta e sempre valorizzata. Le capacità di rinnovarsi, reinventarsi, riposizionarsi, venivano incoraggiate e questo a beneficio finale di una crescita collettiva priva di qualsiasi interesse individuale.
Non esistono, o non dovrebbero esistere, dei comportamenti etici nel mondo del lavoro più o meno corretti: esso è un valore aggiunto in Italia così come in qualunque altra parte del mondo, anche in quei Paesi dove magari potremmo farne a meno.

Si diceva attività di scambio, non nella sua accezione giuridica, ossia il rapporto sinallagmatico per intenderci. Quindi non quello arido di permutare moneta con moneta dove l’inevitabile esito finale è che entrambi avranno una moneta. Il lavoro che arricchisce, che forgia e trasforma è quando due persone si scambiano un’idea e, all’esito, entrambi avranno due idee. Dar luogo così ad un sistema fondato sull’econo-nostra e non econo-mia, per riprendere una recente teoria sviluppata dall’economista Luigino Bruni.

Ecco il lavoro buono e sicuro, il lavoro che assicura la tutela della salute e della sicurezza delle persone nei luoghi attraverso la scienza e l’organizzazione della prevenzione, favorendo altresì la motivazione al lavoro, avvicinandoci all’esperienza descritta dal poeta polacco Kiprian Norwind: “La bellezza esiste per suscitare ammirazione che poi porta al lavoro: il lavoro è per risuscitare”.

Oggi, etica, economia sociale, giustizia, temperanza, bene termini in via di estinzione o totalmente estinti se associati al mondo del lavoro.
Una delle cause è sicuramente aver escluso le giovani generazioni dalle sedi decisionali, dalle camere del lavoro a quelle della politica, consegnando loro una società in cui uno è più bravo se si fa gli “affari suoi”. Cosa importa se milioni di persone muoiono di fame, se trovare lavoro è impossibile, se costruirsi un futuro è vietato a causa dell’avidità di qualcuno!

Bisogna invertire queste tendenze culturali e tornare a garantire che il merito paga, che il lavoro, lo studio duro e motivato vanno riconosciuti e premiati. Aprire le vedute per capire cosa succede attorno nel mondo, quando sono conditi dalla passione, diventano atteggiamenti potenti e affascinanti per progettare il futuro insieme, giovani ed adulti.
È fondamentale allora rivolgersi ai giovani ed ascoltare i loro sogni, i loro bisogni, le loro idee: abbiamo giovani che aboliscono ideologie e fanatismi, che si siedono alla stessa mensa, mettendosi nei panni gli uni degli altri per vedere il mondo così com’è.

La vocazione al cambiamento per i giovani è naturale, sono portatori di forza vitale. La passione nei giovani nei decenni non è cambiata: loro sono in grado di “…tenerci svegli, di richiamarci agli ideali che contano, alla dignità, alla vita dell’uomo in spirito e verità” (Benigno Zaccagnini) e allora ragazzi, infischiamocene davvero: dei prepotenti, degli avidi che ci stanno scippando la speranza. Rifacciamo una vita nuova dove noi, intanto almeno noi, facciamo all’altro ciò che vorremmo sia fatto a noi.

Ecco la bellezza del valore irrinunciabile, del lavoro che va tutelato, difeso, protetto, senza indulgere nell’insolenza del mercatismo, ammantato di globalizzazione, anche considerandoli arnesi artigianali e superati se non armi puntate a salve, ma essenzialmente chiavi di volta del valore assoluto: la vita.
Anna Kuliscioff, la “dottora” dei poveri, in una famosa conferenza a Milano nel 1890, dedicata al lavoro della donna, ammoniva che “Il lavoro, qualunque natura esso sia, diviso e retribuito con equità, è la sorgente vera del perfezionamento della specie umana”.

L’anno successivo Papa Leone XIII, con l’Enciclica “Rerum Novarum” affrontava la questione sociale e costruiva la moderna dottrina cristiana.
Pensate alla cultura della sicurezza e della prevenzione, alla consapevole certezza che investire in esse è sempre profittevole e conveniente, che il sistema aziendale di prevenzione e protezione è efficace ed autorevole se raggiunge l’obiettivo “infortuni zero”.

E così, con alti e bassi, si è sviluppata la cronaca e si è formata la storia sulle vicende del lavoro, sino alla recente iniziativa interistituzionale sul tema “Il lavoro che cambia” promossa dalla Presidenza di Camera e Senato e del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro e presentata a Roma nel febbraio 2009.

Quanto alla responsabilità sociale delle imprese, basta riferirsi la definizione del TUS – Testo Unico per la Salute e la Sicurezza nei luoghi di lavoro. Dove si legge (all’art. 2): “Integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle aziende e organizzazioni nelle loro attività commerciali e nei loro rapporti con le parti interessati”.

In questo perimetro dobbiamo tenere ferma la rotta verso la buona formazione e dirigersi al sicuro approdo del lavoro e del suo fondamento etico. Scortati da indubbie certezze quali: “….Non servono grandi ali per spiccare il volo/La vita è molto più vasta di una definizione/E l’invincibile non è quello che vince sempre/Ma quello che anche se perde non è vinto mai/Se uno ha imparato a contare fino a sette/Vuol mica dire che l’otto non possa esserci….” (Jovanotti “Temporale”)!

Se si favorisce un idem sentire, pur consapevole di aver portato un vaso a Samo, ne saremo tutti soddisfatti come uomini liberi ed impegnati verso più avanzati traguardi sociali.
Aprire un dibattito significa fare riferimento a chi ci ha preceduto ed allargare dando “spunti ampli” sui quali poi il dibattito può animarsi”.

Franco Santellocco è Presidente del Comitato Inter Maghreb-Italia
Membro CGIE-Consiglio Generale Italiani all’Estero-Ministero Affari Esteri

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