«Effetto Hollande»: le conseguenze del voto francese sulla ripresa economica in Europa

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Con l’annunciata vittoria di François Hollande alle elezioni presidenziali francesi si è aperta in Europa una nuova stagione politica, auspicabilmente foriera di cambiamenti finalizzati a una ripresa dell’economia in tutto il continente e, in particolare, nell’Eurozona.
Dopo l’adesione pressoché incondizionata dell’ex Presidente Sarkozy alla «linea del rigore» dettata dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel per fronteggiare la crisi economica, le prospettive offerte dal voto francese autorizzano, in effetti, un certo ottimismo sulla possibilità di ammorbidire la proverbiale rigidità tedesca attraverso un rilancio concreto delle iniziative per la crescita.

Durante la campagna elettorale che lo ha condotto all’Eliseo, Hollande ha dichiarato di volersi affrancare dall’ossessione tedesca per la stretta sorveglianza sui conti pubblici e il pareggio di bilancio, minacciando la revisione degli accordi di recente conclusi in seno all’Unione Europea (il cd. «Fiscal compact») e invocando nuove e urgenti misure per assicurare lo sviluppo economico dei Paesi dell’Eurozona.
Peraltro, se la «ricetta» di Hollande per uscire dalla crisi è ancora tutta da capire (e da valutare), ciò che davvero conta in questo momento è la scelta del metodo che sarà impiegato per metterla in pratica. È necessario, infatti, che, rispetto alla precedente gestione «Merkozy», si realizzi un maggiore coinvolgimento delle istituzioni europee nell’attuazione delle riforme di politica economica. Pertanto, se l’asse franco-tedesco appare comunque destinato a riequilibrarsi in favore di Parigi, sarà essenziale che ciò avvenga nel quadro istituzionale dell’Unione Europea e non al di fuori di questo (riproponendo, in tal caso, solo una variante della diarchia che ha guidato l’Europa negli ultimi anni, con risultati fin troppo deludenti).

Lo scenario in cui la crisi economica si manifesta, già estremamente complesso, è reso più incerto dall’ennesima crisi politica greca, che spinge il Paese verso il default e l’uscita dall’euro (un’ipotesi ormai non solo teorica), e dal ridimensionamento in patria del primato della Cancelliera Merkel, dopo il crollo della CDU alle elezioni regionali in Nord Reno-Vestfalia. Quest’ultimo avvenimento, peraltro, potrebbe condurre a un’accelerazione nel processo di adozione delle misure per la crescita, se è vero che la politica del rigore inizia a trovare sempre meno estimatori anche tra gli stessi cittadini tedeschi.
Si può affermare allora che – forse – qualcosa è cambiato, o almeno sta cambiando: in occasione del G8 di Camp David, i Presidenti dei Governi europei presenti al vertice (Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia), raccogliendo le sollecitazioni di Obama, hanno opportunamente convenuto che «il rigore da solo non basta, ma deve essere accompagnato da misure per la crescita». Parole attese da tempo, che suonano, però, tanto scontate quanto generiche.

Al di là delle dichiarazioni di rito, si tratta quindi di capire cosa si può – e si dovrebbe – fare in concreto.
Il 2 marzo scorso, 25 Paesi dell’Unione Europea (con la sola eccezione del Regno Unito e della Repubblica Ceca) hanno firmato il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria (il già citato «Fiscal compact»). Il Trattato può essere considerato la traduzione in norme degli orientamenti di politica economica pro- (o, per meglio dire,) im-posti dalla Germania agli altri partner europei dopo l’inizio della crisi economica.


Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria (Fiscal Compact)
 

  Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e Mario Monti alla firma del Fiscal Compact  
Il «manifesto» della linea del rigore prevede anzitutto il rispetto dei cd. «parametri di Maastricht», con l’adozione di sanzioni quasi-automatiche in caso di violazione, l’impegno a non superare la percentuale dello 0,5% nel rapporto tra deficit (strutturale) e PIL (che sale all’1% per i Paesi il cui debito è inferiore al 60% del PIL), nonché l’obbligo di ricondurre il rapporto debito/PIL al di sotto del 60% entro 20 anni, con una progressione annuale pari a un ventesimo dell’eccedenza, pena l’applicazione di correttivi immediati qualora uno Stato non rispetti gli obiettivi di bilancio. Il tutto dovrà essere recepito in disposizioni interne di rango non meno che legislativo, meglio se costituzionale (l’Italia, tra gli osservati speciali, ha da poco approvato la riforma dell’art. 81 della Costituzione).

Da più parti, il Fiscal compact è stato accusato di eccessiva rigidità, con la conseguenza di produrre effetti fortemente depressivi sulle economie europee, in particolare su quelle più esposte e già duramente provate dalla crisi. Tali effetti, ostacolando la ripresa economica, a loro volta impediscono il raggiungimento degli obiettivi che la stessa politica del rigore persegue, ossia il risanamento dei conti pubblici e la riduzione del debito.
È indispensabile, pertanto, intervenire anche sulla crescita, unico fattore in grado di «disinnescare» il circolo vizioso nel quale le economie europee sembrano finite e tramutarlo in un circolo virtuoso per la creazione di nuovi posti di lavoro e la ripresa delle attività imprenditoriali e commerciali.
Alcune delle misure già in atto, o sulle quali si registra un’ampia convergenza nell’opinione pubblica (riduzione dei costi della politica e della burocrazia, spending review, lotta all’evasione fiscale, tassazione dei grandi patrimoni), non sembrano da sole sufficienti a bilanciare il peso della sensibile riduzione del PIL dovuta alla crisi, mentre gli effetti benefici delle riforme strutturali (pensioni, lavoro, giustizia) avviate in alcuni Paesi si avvertiranno solo fra qualche anno.

Serve altro, quindi. Ma cosa? Certamente da escludere è l’ipotesi di un «suicidio dell’euro», che condurrebbe a conseguenze nefaste sia nell’immediato (drastica riduzione del valore del denaro, per via di un tasso di cambio sfavorevole, e quindi ulteriore impoverimento dei redditi e dei patrimoni privati), sia in prospettiva (incremento insostenibile dell’inflazione e costi elevatissimi per l’acquisto di materie prime a carico delle imprese: uno scenario simile a quello degli anni che precedettero il secondo conflitto mondiale in Germania).
L’unica via per una vera ripresa economica degli Stati europei passa, invece, per l’Europa, per molta più Europa di quanta ce ne sia oggi. Tutte le proposte avanzate dai sostenitori delle politiche per la crescita, tra cui il nostro Presidente del Consiglio (come l’emissione di project bond, ossia di titoli pubblici europei per finanziare investimenti in settori strategici come le infrastrutture e la ricerca, o lo scorporo della spesa per gli investimenti dalle restrizioni del patto di bilancio), presuppongono, infatti, un rafforzamento della cooperazione e del legame di solidarietà tra gli Stati europei.

Un simile obiettivo, però, non potrà essere raggiunto se non attraverso la conclusione di nuovi e più coraggiosi accordi che consentano di superare questa fase di incertezza decisionale e conducano, nel giro di pochi anni, alla realizzazione di un governo europeo dell’economia, preludio alla formazione di un vero e proprio governo federale. Non si tratta di una possibilità tra le tante, ma di un approdo ineludibile, a meno di non voler condannare il nostro continente a un rapido e inesorabile declino.

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