Lithocoreia, le pietre che
danzano di Paolo Hermanin

Vicolo della Campanella è una stradina stretta che unisce Vicolo Domizio a via dei Banchi Vecchi, una strada in cui le macchine non possono parcheggiare perché è troppo stretta, arrivarci di sera con quella illuminazione gialla e fioca che un unico lampione fa cadere sul selciato, è già entrare in una sorta di scenografia medievale, oltre le ristrutturazioni.

Le case basse che si addossavano attorno ai palazzi dei Principi e dei Cardinali, dove viveva il popolo minuto, oggi hanno costi esorbitanti mentre le vecchie botteghe spariscono e mutano gli abitanti. Muore un tempo, che ingrossa periferie tutte uguali a Roma come nel mondo.
 

Passo dal buio della strada ad un ambiente poco illuminato, quasi nero, c’è un lieve odore di piante, come se fossi da un fioraio, molte signore affollano le due stanze dell’atelier, del resto vedo di rado i giovani alle mostre. Addossate alle pareti su piani neri le piccole sculture hanno un’illuminazione che piove dall’alto, le ridisegna; fra ombre nere e gradazioni di grigio intravedo la polverosità della pietra. Queste pietre sembrano lavate e scolpite dal vento, fanno subito pensare ai graniti che rotolano sul mare in Sardegna o a camminate in montagna. Si muovono in forme antropomorfe profonde e lanciate nello spazio, si spingono oltre se stesse. Danzano una forma che vuole essere voce, c’è un grido o un soffio, un suono o un canto muto della materia che non vuole restare incatenata alla sua sostanza, alla paralisi di un unico sguardo.

Vibrano queste pietre e sono le stesse in cui Eco parla usando l’ultima parola di Narciso? O sono quelle che Filomela invoca perché parlino, prima che Tereo gli mozzi la lingua e la rinchiuda in una stalla di pietra: solo un telaio gli resterà per narrare la violenza subita. Sua sorella Procne, approfittando delle feste di Dioniso, asciugherà le sue lacrime uccidendo il figlio e servendolo in pasto al padre. Sarà poi trasformata in un usignolo cui sul petto resta la traccia rossa della orrenda strage del figlio Iti.

Evocazione di un femminile muto e sanguinario regredito ad una disperante violenza su cui tace il silenzio, interrotto dal canto più seducente che la natura ci offre. Alle pareti due specchi retroilluminati rimandano un’immagine di acqua e pietre e nuvole finemente incise come da una punta secca e sottile. Narciso è vivo dietro lo specchio. Lithocoro è un paese attraverso cui si è costretti a passare per salire sul monte Olimpo.

La mostra Litochoreia resterà aperta fino al 25 Novembre 2012, presso lo Studio Arti Floreali a Roma.

Paolo Hermanin vive e lavora a Roma; con le sue opere ha partecipato alla Biennale di Venezia del 2011.
 

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