Tre vizi della comunicazione
Pubblichiamo uno stralcio della Lectio Magistralis Educazione e Comunicazione del Cardinale Ravasi
Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura
Una prima riserva riguarda la moltiplicazione sconfinata dei dati offerti. Essa può indurre a un relativismo agnostico, a una sorta di anarchia intellettuale e morale, a una flessione dello spirito critico e della capacità di vaglio selettivo. Entrano, così, in crisi le grandi agenzie di comunicazione del passato come la Chiesa, la scuola e lo Stato.
Risultano sconvolte le gerarchie dei valori, si disperdono le costellazioni delle verità ridotte a un giuoco di opinioni variabili nell’immenso paniere delle informazioni. Si attua in modo inatteso quel principio che il filosofo Thomas Hobbes aveva formulato nel suo celebre Leviathan (1651): «Auctoritas non veritas facit legem», è l’autorità potente e dominante che determina le idee, il pensiero, le scelte, il comportamento, e non la verità in sé, oggettiva. La nuova autorità è appunto quella dell’opinione pubblica prevalente, che ottiene più spazio e ha più efficacia all’interno di quella massa enorme di dati offerti dalla comunicazione informatica.
Una seconda nota critica punta alla degenerazione sottesa a una componente di per sé positiva (d’altronde spesso i vizi sono virtù degenerate, come accade ad esempio alla nutrizione che può essere degradata a peccato di gola o alla sessualità deviata nella lussuria). Sotto l’apparente “democratizzazione” della comunicazione, sotto la deregulation imposta dalla globalizzazione informatica, che sembrerebbe essere principio di pluralismo, sotto la stessa molteplicità contenutistica precedentemente segnalata, si cela in realtà un’operazione di omologazione e di controllo. Non per nulla le gestioni delle reti sono sempre più affidate alle mani di magnati o di “mega-corporations” che riescono sottilmente e sapientemente a orientare, a sagomare, a plasmare a proprio uso (e ad uso del loro mercato e dei loro interessi) contenuti e dati creando, quindi, nuovi modelli di comportamento e di pensiero. Si assiste, così, a quella che è stata chiamata un po’ rudemente “una lobotomia sociale” che asporta alcuni valori consolidati per sostituirne altri spesso artificiosi e alternativi. Curiosamente già lo storico francese Alexis de Tocqueville nella sua opera La democrazia in America (1835-1840) aveva previsto per il futuro della società americana un sistema nel quale «il cittadino esce un momento dalla dipendenza per eleggere il padrone e subito vi rientra». Profilo che, per certi versi, s’adatta all’attuale società informatica.
Un’ultima osservazione critica riguarda l’accelerazione e la moltiplicazione dei contatti ma anche la loro riduzione alla “virtualità”. Si piomba, così, in una comunicazione “fredda” e solitaria che esplode in forme di esasperazione e di perversione. Si ha, da un lato, l’intimità svenduta della “chat line” o, per stare nell’ambito televisivo, quella di programmi del genere Il grande fratello; si ha la violazione della coscienza soggettiva, dell’interiorità, della sfera personale. D’altro lato, si ottiene come risultato una più forte solitudine, un’incomprensione di fondo, una serie di equivoci, una fragilità nella propria identità, una perdita di dignità. E’ stato osservato dal citato Barlow che non appena i computer si sono moltiplicati e le antenne paraboliche sono fiorite sui tetti delle case, la gente si è chiusa nelle case e ha abbassato le serrande. Paradossalmente, l’effetto dello spostarsi verso la realtà virtuale e verso mondi mediatici è stato quello della separazione gli uni dagli altri e della morte del dialogo vivo e diretto nel “villaggio”.