Decollazione di San Giovanni Battista
Opera di Caravaggio
Opera di Caravaggio
Traduzione di Maria Rivas
ENGLISH VERSION in "Documenti"
Partiamo da un assunto: la condizione delle persone detenute nelle carceri italiane è assolutamente inaccettabile. E non perché lo abbia stabilito (più di) un Tribunale, ma perché è prima di tutto moralmente e umanamente intollerabile che circa 70 mila detenuti (dei quali il 50% in attesa di giudizio) siano rinchiusi in istituti di pena che complessivamente dovrebbero raggiungere una capienza massima di 43 mila posti.


La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dello scorso 8 gennaio nel caso Torreggiani c. Italia ha affermato che il nostro Paese presenta un problema «strutturale» di sovraffollamento carcerario. Ciò significa che non si tratta di qualche episodio isolato, ma di una situazione di carattere generale, suscettibile di riprodursi in un numero indefinito di casi e di dar luogo a un gigantesco contenzioso dai costi elevatissimi.
La Corte europea ha accertato che le celle in cui erano rinchiusi i ricorrenti, oltre ad essere poco illuminate e prive di acqua calda, misuravano nove metri quadri. In ognuna di esse erano ospitati abitualmente tre detenuti, il cui spazio di autonomia personale era, quindi, pari a tre metri quadri. Ciò è stato considerato lesivo della loro dignità, configurandosi in tal senso la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che impone agli Stati parti il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti.
La Corte ha messo a confronto tali condizioni di detenzione con i parametri generali stabiliti dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che ha individuato in sette metri quadri la dimensione spaziale minima da riservare a ogni individuo detenuto, insieme alle garanzie di accesso privato ai servizi igienici, nonché di livelli adeguati di illuminazione, aerazione e riscaldamento.
Se gli standard di detenzione stabiliti dal Comitato ci appaiono eccessivi per persone che, in fin dei conti, hanno violato la legge, dobbiamo interrogarci se ciò non sia un possibile sintomo del degrado culturale e sociale che ha colpito il nostro Paese.
A ben vedere, infatti, al di là del caso concreto che ha dato origine alla decisione della Corte europea (e prima di essa, ad analoghe pronunce dei nostri Tribunali), il disinteresse verso le condizioni di vita dei detenuti riflette una tendenza ad abbandonare al proprio destino le categorie sociali emarginate (persone con disabilità, malati rari, immigrati), nell’assurda convinzione di marcare, in questo modo, la nostra appartenenza alla parte «sana» della società.
La Corte europea ha accertato che le celle in cui erano rinchiusi i ricorrenti, oltre ad essere poco illuminate e prive di acqua calda, misuravano nove metri quadri. In ognuna di esse erano ospitati abitualmente tre detenuti, il cui spazio di autonomia personale era, quindi, pari a tre metri quadri. Ciò è stato considerato lesivo della loro dignità, configurandosi in tal senso la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che impone agli Stati parti il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti.
La Corte ha messo a confronto tali condizioni di detenzione con i parametri generali stabiliti dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che ha individuato in sette metri quadri la dimensione spaziale minima da riservare a ogni individuo detenuto, insieme alle garanzie di accesso privato ai servizi igienici, nonché di livelli adeguati di illuminazione, aerazione e riscaldamento.
Se gli standard di detenzione stabiliti dal Comitato ci appaiono eccessivi per persone che, in fin dei conti, hanno violato la legge, dobbiamo interrogarci se ciò non sia un possibile sintomo del degrado culturale e sociale che ha colpito il nostro Paese.
A ben vedere, infatti, al di là del caso concreto che ha dato origine alla decisione della Corte europea (e prima di essa, ad analoghe pronunce dei nostri Tribunali), il disinteresse verso le condizioni di vita dei detenuti riflette una tendenza ad abbandonare al proprio destino le categorie sociali emarginate (persone con disabilità, malati rari, immigrati), nell’assurda convinzione di marcare, in questo modo, la nostra appartenenza alla parte «sana» della società.

Senza pretendere di riuscire a cogliere in poche righe il senso più profondo di questo disagio, è indubbio che sia le origini del sovraffollamento, risalenti al periodo in cui il tema dell’edilizia carceraria (come quello dell’edilizia pubblica in genere) è stato rimosso dall’agenda politica dei governi in carica, sia il rapido incremento del numero di detenuti prodottosi in anni recenti per effetto dell’adozione di provvedimenti riempi-carceri (come la legge Fini-Giovanardi sul consumo di stupefacenti o la Bossi-Fini sull’immigrazione), non esauriscono le cause del problema.
Ciò che davvero conta è la percezione diffusa del sovraffollamento carcerario quale conseguenza diretta della «propensione a delinquere» di taluni individui – frutto, quindi, di una loro scelta consapevole – che, come tale, non coinvolge la società nel suo complesso.
Al contrario, questo drammatico problema può essere risolto solo comprendendo che «siamo tutti carcerati», che cioè la qualità della vita dei detenuti, così come quella del personale penitenziario, è un aspetto fondamentale della qualità della vita pubblica di un Paese e, al tempo stesso, una manifestazione evidente del suo livello di civiltà e di coesione sociale.
In una sentenza di qualche anno fa, la Corte costituzionale tedesca ha stabilito che le autorità carcerarie sono obbligate a rilasciare un detenuto qualora non dimostrino di poter garantire condizioni di detenzione conformi all’osservanza dei suoi diritti fondamentali. L’esito rigoroso e paradossale di questa decisione, pienamente condivisibile, è il miglior manifesto dell’obbligo che grava sull’intera società di tutelare la dignità dei detenuti.
Ciò che davvero conta è la percezione diffusa del sovraffollamento carcerario quale conseguenza diretta della «propensione a delinquere» di taluni individui – frutto, quindi, di una loro scelta consapevole – che, come tale, non coinvolge la società nel suo complesso.
Al contrario, questo drammatico problema può essere risolto solo comprendendo che «siamo tutti carcerati», che cioè la qualità della vita dei detenuti, così come quella del personale penitenziario, è un aspetto fondamentale della qualità della vita pubblica di un Paese e, al tempo stesso, una manifestazione evidente del suo livello di civiltà e di coesione sociale.
In una sentenza di qualche anno fa, la Corte costituzionale tedesca ha stabilito che le autorità carcerarie sono obbligate a rilasciare un detenuto qualora non dimostrino di poter garantire condizioni di detenzione conformi all’osservanza dei suoi diritti fondamentali. L’esito rigoroso e paradossale di questa decisione, pienamente condivisibile, è il miglior manifesto dell’obbligo che grava sull’intera società di tutelare la dignità dei detenuti.
Immagini dal sito www.garantedetenutilazio.it del Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio