L’ADDIO E’ UN’ENFASI,…
(Jorge Luis Borges)

Immagini dal sito www.histarmar.com.ar

Quando Juan Bautista Alberdi scrisse nel 1852 le sue “Basi e punti di partenza per l’organizzazione politica della Repubblica Argentina” il principio fondamentale della sua proposta era “governare è popolare” perché secondo il suo pensiero l’Argentina era “un paese con capacità per 50 milioni di abitanti solo un milione è senza destino”. Un anno dopo, 1853, si promulgò la Costituzione Nazionale che nel suo Preambolo apre le porte del paese a “tutti gli uomini del mondo che vogliono abitare il territorio argentino”
La nostra era una nazione sconfinata per solo un mucchio di abitanti che non sapevano coltivare né sfruttare le ricchezze di tanta terra, e non conoscevano i mestieri che avevano dato dinamismo sociale ai popoli europei. Il paese doveva promuovere l’immigrazione ecco perché si istituì una Commissione che girava per i porti europei spiegando i vantaggi del trasferirsi in Argentina, offrendo una porzione di terreno da lavorare, una casa, una vita migliore.
Le navi si riempirono di quelli che soffrivano la fame e le persecuzioni politiche, non avevano niente, solo la loro speranza.
   
La grande ondata migratoria ci fu dal 1880 in poi, erano soprattutto italiani che partivano dai loro paesini verso i porti di Napoli, Genova e Trieste. Le condizioni sulle navi erano precarie, le masse degli immigrati viaggiavano in terza classe, pativano il caldo o il freddo secondo la stagione in una condizione generale di promiscuità. Le compagnie di navigazione cercavano di riempire le navi evitando le disposizioni legali che con il tempo si fecero più dure e le traversate smisero di essere esperienze negative (ci sono stati anche naufragi, come quello del vapore Sirio, partito da Genova)
Dopo 20 giorni sbarcavano a Buenos Aires, passavano per i controlli sanitari e dei documenti e venivano sistemati nell’“Hotel degli Immigranti”, un palazzone di 4 piani vicino al porto che poteva ospitare fino a 3 mila persone. Nell’Hotel (oggi sede del Museo dell’Immigrazione) rimanevano gratuitamente per 5 giorni, il tempo necessario per l’assegnazione del posto di lavoro e di residenza e così potevano iniziare finalmente una nuova vita.
   
In Argentina sono arrivati circa 2.600.000 italiani, si dice che nel 1915 a Buenos Aires un giovane su quattro parlava solo italiano! Gli italiani portarono i loro mestieri, la loro cultura, il loro linguaggio, gusti, abitudini e tradizioni che segnarono profondamente il modo di essere dell’argentino. Fondarono la prima banca, “il realizzato Banco de Italia y Río de la Plata” che è arrivato al secolo di vita, hanno pubblicato 107 titoli, hanno forgiato interi quartieri, per esempio La Boca quasi totalmente abitato da genovesi che fondarono una delle società di calcio più importanti del paese, il Boca Juniors, comunemente chiamati xeneizes (da zeneize, il dialetto genovese). Una delle pasticcerie più importanti e tradizionali di Buenos Aires è senza dubbio la Pasticceria El Molino, ed il proprietario non poteva essere che un pasticcere italiano che aveva cominciato con un piccolo locale per poi inaugurare quel posto meraviglioso di 5 piani dichiarato monumento storico.

   
Quella italiana è una delle comunità più numerosa dell’Argentina, si stima che il 60% degli argentini ha origini italiane e quasi con certezza l’altro 40% è di origini spagnole. Io appartengo a quest’ultima categoria: la mia famiglia paterna arrivò a Buenos Aires nel 1950 e quella materna nel 1962. Come tutti gli immigrati, sia quale sia la loro provenienza, si sono costruiti una vita serena e felice mai conosciuta prima ma la nostalgia della terra madre non li ha mai abbandonati: nessuno dei miei nonni rivide la loro patria, mia madre, Maria come me, lasciando il porto di Vigo promise di tornare l’anno seguente ma è riuscita a rimettere piede nella sua amata Galizia solo 37 anni dopo…
Nelle parole tratte dal libro “Sull’oceano” di Edmondo De Amicis c’è una chiara descrizione dello stato d’animo di un immigrato:
“Quando misi piede a terra, mi voltai a guardare ancora una volta il Galileo, e il cuore mi batté nel dirgli addio, come se fosse un lembo natante del mio paese che m’avesse portato fin là. Esso non era più che un tratto nero sull’orizzonte del fiume smisurato, ma si vedeva ancora la bandiera, che sventolava sotto il primo raggio del sole d’America, come un ultimo saluto dell’Italia che raccomandasse alla nuova madre i suoi figliuoli raminghi”.
Sì, proprio così.

 

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