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Che ci faceva sabato pomeriggio il vecchio Lakhdar Brahimi nei palazzi ginevrini dell’Onu, mentre si preparava l’accordo nucleare con l’Iran? E perché confabulava fitto fitto, la volpe algerina che da mesi media sulla Siria, quando nel corridoio intercettava il russo Lavrov o l’iraniano Zarif? Quarantott’ore e s’è capito. Un altro annuncio, meno sorprendente di quello sull’atomica, altrettanto atteso: dopo due anni e mezzo di guerra civile, 120 mila morti e sette milioni di sfollati, nel mezzo d’un mattatoio che sta sfasciando il mondo musulmano quasi più di quel che fu la guerra Iran-Iraq degli anni Ottanta, per la prima volta Bashar Assad e i ribelli siriani hanno accettato di guardarsi in faccia e non solo nel mirino. Colloqui di pace a Ginevra, il 22 gennaio. Molti gli invitati, annuncia il segretario delle Nazioni unite, Ban Ki-moon, tanto preciso su americani e russi, quanto cauto su iraniani e sauditi. Unico l’obbiettivo: formare un governo transitorio con pieni poteri militari e di sicurezza, che possa preparare le elezioni e magari una nuova costituzione. Una coalizione delle forze che ci stanno, stile Iraq, ma con una differenza sostanziale: che Assad non è nascosto in una botola, com’era Saddam, e vuole partecipare di persona. Che si parlino, non significa che non si sparino. Duecento morti negli ultimi tre giorni. Una tregua è impensabile prima di gennaio, riconosce Ban Ki-moon. E in ogni caso la lista dei chiamati sarà il problema numero uno. Entro il 20 dicembre, all’incontro preparatorio Usa-Russia, governo di Damasco e opposizioni dovranno dire chi li rappresenterà: l’Onu spinge per saperlo già in settimana, ma è probabile serva più tempo. La Coalizione degli esuli all’estero, sostenuta da Ue, Turchia e Golfo, è sulla carta la principale formazione anti-Assad, ma ormai ha perso il controllo delle forze in campo: non vuole al tavolo il dittatore, né l’Iran che lo sostiene. La conferenza di pace però «rischia di nascere menomata», dice il nostro ministro degli Esteri, Emma Bonino, che reclama una partecipazione italiana al negoziato: a Ginevra non può mancare l’Iran, che «è parte del problema e dev’essere parte della soluzione». Stessa questione si pone per i sauditi: per voce dei ribelli armati che sostengono, vogliono che Assad stia fuori dal gioco, oltre al rilascio dei detenuti e ai corridoi umanitari nelle zone assediate. E allora che fare del presidente siriano? Lui ha detto che a Ginevra non ci sarà «una consegna di poteri». Obama ripete che lo scopo di questi negoziati è mandare via lui e, quindi, chiede agli iraniani d’accettare la rimozione del loro sgradito amico. Sarà un puzzle, mettere insieme la tavolata col consenso di tutti: una soluzione ipotizzata da un diplomatico è che Iran e Arabia partecipino ai margini della conferenza, con Assad che invia una delegazione e «segue» i lavori da Damasco. L’agenda è aperta, comunque. E sulla copertina c’è scritto Ginevra 2. Non soltanto perché la conferenza verrà dopo Ginevra i, l’incontro che a giugno vide stilare la prima roadmap per la Siria: è anche l’uno- due della diplomazia della navetta, la rivincita di Obama Kerry, il dialogo che dopo le aperture di Rouhani rimescola sul lago il mazzo di molte partite mediorientali. Solo uno spiraglio, per ora: «Le difficoltà restano enormi», riconosce la Casa Bianca. E prima di gennaio se ne vedranno. Ieri Assad, in un Paese allo stremo, ha deciso a sorpresa che prima del voto tutti avranno nuove carte d’identità. Coi microchip e le impronte digitali. Un siriano su tre però è ormai irreperibile: sfollato, profugo o morto. E c’è già chi sente puzza di brogli.