La Regione Lazio è vicina al default…

di | 11 Mar 2014

 

La Regione Lazio è talmente indebitata che ogni giorno deve pagare alle banche tre milioni di euro, di cui un terzo per rimborsare il capitale e due terzi per gli interessi. Dopo avere esaminato i bilanci degli ultimi anni, di recente la Corte dei conti ne ha dedotto che «la Regione Lazio, con 11 miliardi di debiti e una spesa sanitaria squilibrata, è in default da dieci anni». Nelle stesse condizioni, un’azienda normale sarebbe stata chiusa da un pezzo, e i libri portati in tribunale. Ma in politica di normale è rimasto ben poco. In un Paese normale, dove il debito pubblico è arrivato al 130 per cento del pil, l’abolizione di tutte le Regioni dovrebbe essere un passo obbligato per qualsiasi governo che volesse abbattere sul serio la spesa improduttiva e gli sprechi. E bilanci in default come quello della Regione Lazio dovrebbero essere impugnati dal premier come prova decisiva per agire mediante decreto. Ma a giudicare da quanto succede nel Lazio c’è poco da illudersi. Appena tre mesi fa, allarmata per il rischio incombente del default, la giunta di centrosinistra guidata da Nicola Zingaretti ha aumentato l’addizionale regionale Irpef, portandola dall’1,73% del 2013 al 2,33% per i redditi 2014 e al 3,33% per quelli del 2015. Aliquote record in Italia, che fanno dei contribuenti del Lazio i più tartassati: basti pensare che, non solo in Lombardia, ma perfino in Basilicata, l’aliquota è più bassa, appena l’1,2 per cento. Ieri, all’improvviso, la retromarcia: Zingaretti ha convocato i sindacati e ha annunciato che l’aliquota del 2,33% si applicherà nel 2014 solo sui redditi superiori a 28 mila euro l’anno, e non più su quelli oltre i 15 mila euro. In questo modo, gli esenti salgono da 800 mila a due milioni, con un minore gettito di 400 milioni di euro. Soldi, questi ultimi, non ancora disponibili, ma da trovare. E Zingaretti ha giurato che li scoverà con i soliti tagli di spesa, per lo più imprecisati, e con la solita favoletta della spending review. Promesse invece dei fatti. Sembra l’ennesimo balletto sulla tolda del Titanic. Pagare tasse più elevate per tenere in piedi un carrozzone come la Regione Lazio è soltanto un’offesa al buon senso. Questa megastruttura amministrativa non ha più alcuna funzione sul piano della democrazia, fornisce servizi scadenti e costosi (sanità e trasporti), costituisce uno spreco enorme di risorse e danneggia l’economia. Come rivela uno studio di Massimiliano Iervolino («Default Lazio»; Infinito edizioni), i 71 consiglieri regionali del Lazio in carica fino all’anno scorso (giunta di Renata Polverini) si sono distinti per scarsa laboriosità e incontenibile avidità di denaro. Nel corso di una legislatura regionale durata 29 mesi, sono state convocate in tutto appena 69 sedute, due ogni 30 giorni, e 120 adunanze, una a settimana. Il costo di ogni seduta è stato di 4 milioni di euro, per via dei gettoni di presenza. Soldi che si sono sommati a un’indennità di 18-20 mila euro netti al mese per ciascun consigliere, più le spese pazze assegnate a tutti i gruppi politici, un fiume di denaro in cui hanno sguazzato in tanti, e non solo i due consiglieri più indagati, ovvero Franco Fiorito (Pdl) e Vincenzo Maruccio (Idv), un seguace di Antonio Di Pietro che si serviva di ben undici conti correnti per intascare in proprio i denari della Regione. Insomma, i soldi per lavorare non sono mai mancati. Ma che cosa è stato fatto? Sul piano legislativo, il Consiglio regionale del Lazio si è rivelato una finta democrazia, che non ha saputo produrre nulla di utile. I numeri sono impietosi. Su 393 proposte di legge, quelle approvate sono state 42, e 31 di queste erano a firma degli assessori. Su 421 mozioni, 371 non sono mai state discusse. Idem per le interrogazioni: una marea, ben 1428, di cui appena il 16,5 per cento è stato esaminato. In sostanza, scrive Iervolino, «il Consiglio regionale ha delegato le sue prerogative all’esecutivo, non concorrendo alla determinazione dell’indirizzo politico. Una non democrazia». La ricaduta del malgoverno regionale è stata altrettanto dannosa sul piano economico e sociale. Nel 2012 la Regione ha speso circa 20 milioni di euro per i suoi 5,8 milioni di abitanti, in media 3.500 euro per ciascun laziale. Cifra considerevole, ma per nulla incisiva sul tenore di vita. Il pil pro capite (29.500 euro) è fermo al livello del 2005, ed è inferiore a quello di altre regioni capitale, come Bruxelles (59.800 euro), Parigi (47.800), Londra (43.300) o Amsterdam (39.500). Oltre all’Irpef più elevata in Italia, qui le imprese devono pagare un’aliquota Irap del 4,82%, contro il 3,9% delle Regioni del Nord. Nell’indice della produttività, il Lazio è al 133.mo posto su 268 Regioni. I ritardi nei pagamenti sono stimati in 14 mesi per la Regione, in 13 mesi per il Comune di Roma, e in 8 mesi per le aziende sanitarie. Ben un terzo dei fallimenti delle imprese sono dovuti non a scarsa capacità imprenditoriale, ma ai mancati pagamenti delle pubbliche amministrazioni. Ancora. Vivere e lavorare nel Lazio è più costoso che nel resto d’Italia perché sui residenti e sulle imprese grava un debito di circa 12 miliardi di euro, dovuto soprattutto alla cattiva gestione della sanità (sia di destra che di sinistra), per cui prima ancora di poter pagare per ottenere dei servizi, i contribuenti del Lazio devono pagare gli interessi sul debito regionale, pari a 900 milioni l’anno. Uno studio di «Fare per fermare il declino», in base a questi dati, ha dedotto che il Lazio «oggi non è un posto dove far nascere nuove imprese, né un posto per giovani e donne che vogliano entrare nel mondo del lavoro, né un posto dove trovare servizi e infrastrutture d’eccellenza». E non sarà certo la piccola aspirina fiscale della cura Zingaretti a cambiare uno scenario così disastroso. Per liberare risorse per la crescita servono due shock politici : abolire la Regione Lazio e mandare a casa l’intera classe politica che se ne è servita per arricchirsi, rubando e sprecando. Anche la cancellazione delle altre 19 Regioni d’Italia, a quel punto, incontrerebbe meno ostacoli. Un sogno, certamente. Ma di una politica che faccia sognare, c’è bisogno più che mai.