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Lo scorso 16 febbraio siamo entrati nel terzo anno dell’interminabile crisi diplomatica tra Italia e India sorta a seguito dell’incriminazione dei due fucilieri di Marina Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. In questi due anni abbiamo assistito a un vero e proprio «psicodramma mediatico» (come lo ha giustamente definito l’Amb. Antonio Armellini nel suo articolo recentemente apparso su AffarInternazionali.it), alimentato da dichiarazioni, smentite e contro-dichiarazioni di varia provenienza, con il risultato di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle questioni realmente rilevanti.
Soprattutto, questo «rumore di fondo» ha finito per coprire il vuoto lasciato dal diritto internazionale, il vero grande assente di questa brutta storia.
Il Ministro della Difesa Roberta Pinotti ha fatto bene a ricordare che i nostri Marò non sono eroi – né francamente vorremmo che lo diventassero, malgrado qualche maldestro tentativo di «beatificazione» da parte di chi è sempre in cerca di visibilità a buon mercato e… a spese altrui – ma semplicemente due militari impegnati in una missione autorizzata dal Parlamento. E in quanto militari in missione la loro posizione giuridica è (…dovrebbe essere) tutelata dal diritto internazionale, che, in forza di una regola di carattere generale, riserva ai Tribunali dello Stato di appartenenza la giurisdizione su tutte le controversie aventi a oggetto la legittimità degli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.
La semplicità e la chiarezza di tale regola – che non costituisce una novità recente nelle relazioni internazionali, ma ha un’origine consuetudinaria risalente – avrebbe meritato un’applicazione conforme anche nel caso di specie (rendendo quindi superfluo anche l’accertamento del locus commissi delicti), posto che la condotta generale dei due fucilieri non può certamente essere considerata estranea alla funzione ufficiale di protezione della nave loro affidata. Pertanto, anche qualora tale condotta fosse contestabile sotto il profilo della legittimità o delle conseguenze concrete da essa determinate, non per questo sarebbe lecito ritenere che i due fucilieri si siano «trasformati» in privati cittadini, come tali assoggettabili a una giurisdizione diversa da quella dei Tribunali dello Stato di appartenenza.
Ciò nonostante, sin dall’inizio, il diritto internazionale sembra essersi incomprensibilmente «eclissato» da questa vicenda, lasciando spazio a una gestione emotiva – e a volte schizofrenica – delle sorti dei due Marò, dapprima trattenuti, poi riconsegnati all’India e oggi alle prese con un processo talmente lento e inutilmente ingarbugliato da far impallidire la nostra proverbiale giustizia-lumaca. Come se non bastasse, nella regione indiana del Kerala si terranno a breve le elezioni, dalle quali uscirà un nuovo interlocutore politico che certamente vorrà sostenere le proprie ragioni nella vicenda.
Le responsabilità dell’Italia per aver contribuito, soprattutto nel dibattito pubblico interno, a marginalizzare il ruolo del diritto e della diplomazia internazionali non possono tacersi. La pervicace assenza di risolutezza nell’indicare alla controparte indiana che l’unica via per risolvere la delicata crisi in atto deve essere quella internazionale, nel pieno rispetto del principio di buona fede che informa le relazioni giuridiche tra Stati sovrani, è probabilmente la colpa più grave.
Tuttavia, non tutto è perduto: la possibilità di recuperare credibilità sia attraverso un’azione diplomatica forte, che coinvolga le massime istanze internazionali allo scopo di evitare – mediante l’elaborazione di nuove regole condivise – che situazioni del genere abbiano a ripetersi in futuro, sia attraverso l’attivazione di ulteriori strumenti di difesa giudiziaria (come un arbitrato internazionale fondato sull’applicazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare) è certamente alla portata del nuovo esecutivo e delle sue legittime aspirazioni di restituire al nostro Paese i suoi fucilieri e la sua dignità.
Immagine dal sito esercitoitalianoblog.it