Elaborazione Immagine di Carla Morselli
Due tragici eventi hanno occupato la cronaca estera di questi giorni: l’offensiva armata di Israele nella striscia di Gaza e l’abbattimento del volo MH17 della Malaysia Airlines nello spazio aereo ucraino attualmente controllato dai combattenti filorussi.
Entrambi tali avvenimenti (che si aggiungono alle tragiche situazioni di conflitto presenti in Siria e in Iraq e al fragile equilibrio politico raggiunto in Libia dopo la caduta del regime di Gheddafi) sembrano essere caratterizzati, almeno in questa fase, da un elemento inedito quanto decisivo, rappresentato dall’incapacità – intesa sia come impossibilità oggettiva, tenuto conto delle regole che ne determinano il funzionamento, sia come assenza soggettiva di volontà – di intervento da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, prigioniero del cd. «potere di veto» riconosciuto ai suoi membri permanenti (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia).
L’esercizio del potere anzidetto è sintomatico dell’intenzione di difendere gli interessi politici (in senso lato: quindi anche economici, culturali, militari, ecc.) che ogni membro permanente legittimamente persegue, fino all’ipotesi estrema di paralizzare ogni iniziativa idonea a mettere in discussione alleanze diplomatiche consolidate, anche qualora si tratti di difendere l’indifendibile.
Ovviamente, la salvaguardia dei propri interessi è un elemento comune a tutti i membri della comunità internazionale, la quale, com’è noto, si fonda sul principio di sovrana uguaglianza tra Stati sin dai tempi della pace di Westphalia. Tuttavia, il potere di veto rende gli Stati che ne sono titolari «un po’ più uguali degli altri» proprio in ragione della possibilità di dire l’ultima parola e impedire l’intervento delle Nazioni Unite nei casi in cui sarebbe invece necessario preservare la pace e la sicurezza internazionali, ovvero ripristinarle in seguito alla loro violazione.
Non è certamente questa la sede per esprimere un giudizio approfondito sull’efficacia del sistema di mantenimento della pace allestito dalla Carta di San Francisco dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Quel che è certo è che, sin dai primi anni successivi alla sua entrata in vigore, tale sistema ha denunciato limiti evidenti di funzionamento, data l’incapacità di condurre a risultati soddisfacenti tutte le volte in cui l’antagonismo tra le due superpotenze protagoniste della guerra fredda ha finito per prevalere. Dopo il crollo del comunismo, per quasi due decenni a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio, gli Stati Uniti hanno detenuto una sorta di «monopolio di fatto» sull’uso internazionale della forza, ma il fallimento dell’unilateralismo politico dell’amministrazione di G. W. Bush (e del suo obiettivo di «bonificare» il mondo dal terrorismo internazionale dopo l’11 settembre) e l’emergere di nuove economie molto aggressive (anche perché a volte poco attente al rispetto del principio democratico o ai diritti dei lavoratori) ci consegnano oggi una comunità internazionale piuttosto spaesata, sempre più «allergica» al rispetto di regole condivise e – almeno in apparenza – poco incline ad autodisciplinarsi in modo saggio e lungimirante.
Il progressivo deterioramento delle relazioni internazionali è testimoniato dalla tragica assurdità dell’abbattimento del volo MH17 e, in particolare, dalle inaccettabili complicazioni opposte dai ribelli filorussi nell’autorizzare la presenza di ispettori internazionali e il recupero delle salme dei passeggeri, in violazione delle disposizioni della Convenzione di Chicago del 1944 sull’aviazione civile internazionale.
Per contro, utilizzando un’argomentazione cara ai sostenitori della realpolitik, è innegabile che l’imperfetto sistema di protezione della pace assicurato dalle Nazioni Unite è senz’altro migliore di tutte le soluzioni sperimentate in precedenza, avendo impedito negli ultimi (quasi) settanta anni lo scoppio di un nuovo conflitto mondiale, nonostante le ricorrenti situazioni di tensione presenti in alcune aree del mondo.
Ma allora dovremmo fare meglio ad accontentarci? Dovremmo in altre parole accettare hegelianamente la razionalità insita nella realtà, anche se questa realtà non ci piace affatto?
In effetti, a ben vedere – o meglio, a ben sentire – ciò che si percepisce con crescente chiarezza è una nuova, rassegnata, «diplomazia del silenzio», diretta conseguenza della politica non interventista portata avanti dall’amministrazione Obama, dell’attitudine di Putin a parlare con i fatti (e semmai a discuterne dopo a livello diplomatico), del tenace mutismo cinese e del flebile «rumore di fondo» prodotto dall’Europa.
Come (quasi) sempre accade, infatti, l’Europa, quando non tace, parla con troppe voci diverse, con il risultato che non si capisce mai come la pensi davvero. Beninteso, non è certo una novità l’assenza di un orientamento europeo comune in politica estera, ma oggi più che mai si tratta di un’assenza colpevole, che non può essere giustificata solo dalla retorica delle diverse alleanze che tradizionalmente caratterizzano le diplomazie continentali e che ne impedirebbero una sintesi programmatica. Non risiede infatti nella stessa funzione della diplomazia la soluzione a un simile problema?
Come per il potere di veto all’interno del Consiglio di sicurezza, la distanza tra le diplomazie europee va invece misurata in termini di difesa dei propri interessi. Ma se è vero che, rispetto al passato, il mondo globalizzato è più difficile da governare (e di questo le stanche democrazie del vecchio continente sono ben consapevoli), la recente crisi economica, nata dall’insostenibilità del divario accumulato tra l’economia reale e quella finanziaria, dovrebbe insegnarci che per uscirne davvero l’Europa – una e, possibilmente, federale – deve contare di più.