Isis, il Califfo lancia la jihad del gas contro l’Italia…
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www.huffingtonpost.itL’Italia nel mirino del Califfo. Non è più solo propaganda. È un messaggio preciso, un obiettivo mirato: colpire i nostri interessi energetici. È quanto veicolato su Internet dal “Dipartimento comunicazione” dello Stato islamico. "Le onde ancora ci separano, ma questo è un mare piccolo, è una promessa al nostro Profeta", minaccia il comunicato allegato ai nuovi proclami Isis: "State attenti, ogni stupido passo vi costerà caro", si afferma forse in riferimento al ruolo guida che l’Italia vuole giocare per la stabilizzazione della Libia. "Ogni stupido passo incendierà’ tutto il Mediterraneo", si prosegue citando tutti i Paesi confinanti, dalla Tunisia all’Egitto. E ancora attacchi, "siete i cani da guardia" dei Paesi arabi, riferimento a punizioni e torture. Si cita anche Omar al-Mukhtar, l’eroe libico della resistenza anti-italiana negli Anni 20 del secolo scorso. Accanto alla nuova sfida contro Roma ci sono due foto: la prima ritrae un combattente armato, davanti al mare, che guarda il Colosseo sullo sfondo. Sul monumento sventola la bandiera nera di al-Baghdadi. Una scritta recita l’Isis "dalla Libia sta arrivando a Roma".
È la prima volta che nella propaganda jihadista la bandiera nera viene issata sul Colosseo invece che non sul Vaticano, tradizionale bersaglio dell’Isis. Ed è accertato che da settembre a oggi, il termine «Rum», con cui i seguaci di Baghdadi indicavano secondo la tradizione musulmana l’antica Costantinopoli, ha effettivamente cambiato senso. Dalle minacce del portavoce Isis Adnani, lo scorso settembre, la propaganda dello Stato islamico parla concretamente della Città Eterna, cuore cristiano d’Europa e sede del Vaticano. Nella seconda foto, invece, è disegnato il gasdotto Greenstream che da Wafa in Libia arriva a Gela, in Sicilia. Si tratta di una delle principali linee di rifornimento energetico dell’Italia. Qui sta il salto di qualità della minaccia jihadista al nostro Paese. Colosseo, Vaticano, sono riferimenti simbolici. Il gas è invece un obiettivo concreto, che avrebbe ricadute devastanti sulla nostra bolletta energetica. Colpire i nostri interessi economici: ecco la nuova “jihad” contro il Belpaese lanciata dalla filiale libica dello Stato islamico. Per comprenderne la portata, è bene ricordare cosa c’è in ballo.
Secondo i dati pubblicati recentemente dalla nostra ambasciata, l’Italia è ancora la prima destinazione delle esportazioni libiche (gas e petrolio) e la terza fonte di importazioni nel Paese nordafricano (principalmente prodotti derivati dalla raffinazione del greggio). In particolare, nei primi sei mesi del 2014 l’export dell’Italia verso la Libia è stato pari a 1,732 miliardi (-15,4%) e l’import a 3,054 miliardi (-58,6%). Ovviamente il gruppo italiano più importante a operare in Libia è l’Eni. Secondo le statistiche dell’Unione petrolifera, da gennaio a novembre 2014 l’Italia ha importato mediamente 3,3 milioni di tonnellate di petrolio libico, pari al 6,7 per cento del totale. Per quanto riguarda il gas naturale, nel 2014 le importazioni italiane dalla Libia sono state di 6,4 miliardi di metri cubi, pari all’12 per cento del totale. Tra la major energetiche che operano nell’ex Jamahiriya islamica quella con la maggior presenza è l’Eni (ci sono tra le altre le americane Marathon e Conoco Phillips, la francese Total, la russa Gazprom, la spagnola Repsol). La Libia riveste un’elevata importanza geoeconomica in quanto permette all’Italia la diversificazione sul mercato energetico soprattutto in una situazione come quella attuale che vede l’Italia pericolosamente “ingabbiata” tra la crisi in Ucraina con la Russia (secondo fornitore di gas e terzo di petrolio all’Italia) e la minaccia del Califfato in Libia.
Di rilievo anche la presenza di Iveco, mentre Salini Impregilo si è aggiudicata nel 2013 la costruzione del primo lotto della famosa Autostrada dell’Amicizia, che dovrebbe correre per 1.700 chilometri dal confine con la Tunisia al confine con l’Egitto. Un progetto quest’ultimo finanziato dal governo italiano in base agli accordi presi nel 2008 tra Berlusconi e Gheddafi come risarcimento «dei danni inflitti dall’Italia alla Libia durante il periodo coloniale ». Circa 120 aziende italiane erano attive nel 2013 in Libia. Aziende ora in grandi difficoltà. Si pensi che solo per quanto riguarda il periodo precedente al 2013 e i lavori con imprese di Stato, gli italiani vantano almeno un miliardo di crediti non riscossi, secondo la Camera di Commercio italo-libica, e chissà se più esigibili. Crediti non incassati, lavoro perso, elementi che certo non giovano in un periodo di crisi. Stesso discorso vale per l’export italiano in Libia: nel 2013 era cresciuto quasi del 20 per cento, raggiungendo i 2,9 miliardi (nel 2010 però l’interscambio italo-libico ammontava a 12 miliardi di euro).
Le riserve di petrolio della Libia si concentrano in sei grandi bacini sedimentari: Sirte, Murzuk, Ghadames, Cirenaica, Kufra e l’offshore, che il governo ritiene disponga di un grande potenziale ancora inesplorato. Circa l’80% delle riserve attualmente recuperabili si trova a est, nel bacino della Sirte, nel territorio in cui attualmente si espandono le operazioni delle milizie vicine all’Isis. Un’analisi dell’Istituto Affari Internazionali curata da Nicolò Sartori non esclude che l’offensiva del cosiddetto “stato islamico” possa determinare un blocco totale del settore energetico libico. Così come non è da escludere che le milizie possano cercare di mantenere operativi i giacimenti che dovessero cadere sotto il loro controllo. Come sta d’altra parte accadendo in Iraq, dove l’Isis si finanzia vendendo il greggio sottocosto ad acquirenti senza scrupoli. “Sebbene la situazione non sia ancora giunta a livelli drammatici – rileva Sartori – anche perché l’inverno è nella sua fase conclusiva e le importazioni dall’Algeria possono essere comunque incrementate senza maggiori difficoltà, l’avanzata dei jihadisti aggiunge ulteriore incertezza al destino dei nostri approvvigionamenti energetici”. Prima della caduta di Gheddafi, la Libia produceva 1,6 milioni di barili di petrolio al giorno, in questo periodo la produzione è scesa a meno di un quarto, ma l’incostanza delle quantità estratte rendono la situazione economica ancor più rischiosa.
Dalla metà dell’anno scorso, a seconda dell’andamento della guerra civile in corso, le quantità estratte sono scese fino a 150.000 barili al giorno, per risalire a quasi un milione nello scorso ottobre, per poi ridursi di nuovo dopo gli ultimi attacchi che, eterogenesi dei fini, hanno coinvolto anche impianti della francese Total. L’ente nazionale idrocarburi libico ha dichiarato che se questi attacchi dovessero continuare bloccherà tutte le operazioni di estrazione. L’ultimo attentato contro il settore energetico è stato portato a termine sabato scorso, quando una bomba è stata fatta esplodere contro l’importante oleodotto che collega i giacimenti di Mesla e di el-Sarir (uno dei più grandi del Paese) al terminale di Hariga, vicino a Tobruk, in Cirenaica. Non è il primo incidente di questo tipo. Il 4 febbraio un commando armato di Ansar al Sharia legato all’Isis aveva sferrato un attacco contro il giacimento di Mabrook, a sud di Sirte, gestito dalla francese Total insieme alla Noc (la compagnia petrolifera di stato della Libia). Entrati nel sito, i jihadisti avrebbero ucciso 13 persone, tra cui tre lavoratori filippini e due ghanesi, decapitandone diversi. Con l’attacco all’oleodotto di Hariga la produzione libica è così precipitata sabato scorso a circa 200mila barili al giorno, un ottavo rispetto ai livelli produttivi precedenti lo scoppio della rivolta, nel febbraio del 2011 (1,6 milioni di barili al giorno). La jihad è dichiarata. E il pericolo maggiore per l’Italia potrebbe venire dal mare.
Indicativo è lo scenario tratteggiato da Giuliano Da Frè , analista della Rivista Italiana Difesa (RID): “Il vero pericolo potrebbe giungere via mare, e vestire – rileva Da Frè – i panni della poco sofisticata ma molto scaltra e totalmente priva di scrupoli guerra asimmetrica, in cui i miliziani dell’Isis – feroci, ma tutt’altro che sprovveduti – si sono dimostrati maestri. E l’incidente avvenuto domenica scorsa a una vedetta della Guardia Costiera, uno dei natanti da ricerca e soccorso tecnicamente all’avanguardia nell’affrontare condizioni meteo marine estremamente avverse, ma anche disarmati, ha provocato più di un brivido nella schiena; e, si spera, motivo di allarme e di attenzione per la Difesa italiana. In quest’occasione si è trattato infatti “solamente” di un gruppo di scafisti che rivolevano i ferri del mestiere, ossia un barcone sequestrato dai nostri (inermi) guardacoste. Ma cosa sarebbe successo se si fosse trattato di un commando di jihadisti, decisi a uccidere o catturare militari occidentali? Impossessatisi di alcuni porti e di imbarcazioni di vario genere, e con la possibilità di sfruttare l’esperienza accumulata dagli scafisti da anni impegnati sulle rotte migratorie, Isis potrebbe ripetere tra golfo della Sirte e canale di Sicilia lo scenario che da 10 anni domina la regione marittima compresa tra la Somalia e Aden.
Veloci natanti potrebbero infatti attaccare pescherecci, imbarcazioni da crociera, piccoli mercantili, ma anche vedette impegnate in missioni di soccorso, in questo caso più per catturare prigionieri da esibire con tuta arancione e coltello alla gola (e per i quali chiedere lucrosi riscatti) che merci. Proprio le unità della Guardia Costiera possono risultare vulnerabili a scenari ancora più letali e mirati: il miscuglio tra mancanza di scrupoli e fanatismo potrebbe trasformare qualche barcone di ignari clandestini in una trappola esplosiva innescata nel momento in cui l’imbarcazione viene abbordata dai team di ispezione, o avvicinata dal guardacoste di turno, con conseguenze devastanti per uomini e mezzi”. Gli obiettivi sono stati individuati, i mezzi anche. L’interrogativo da porsi, allora, non è “se” ma “quando”, “come” e “dove” i miliziani di al-Baghdadi colpiranno.