Elaborazione Immagine di Carla Morselli
Negli ultimi mesi, l’afflusso dei profughi e dei richiedenti asilo – persone in fuga da conflitti armati, costrette ad abbandonare il loro Paese d’origine per timore di essere uccise o imprigionate e torturate per motivi etnici, religiosi o di semplice appartenenza politica – verso il continente europeo è drammaticamente cresciuto, per via dell’incapacità della comunità internazionale di far fronte all’avanzata del gruppo terroristico dell’Isis nelle regioni mediorientale e nordafricana.
È già da diversi anni, peraltro, che tale afflusso non ha più carattere sporadico, ma regolare, proprio a causa dello stato di “guerra permanente” che caratterizza le regioni in precedenza citate, e si somma a quello delle cd. «migrazioni economiche» – quelle, cioè, di chi lascia il proprio Paese non perché si trova in immediato pericolo di vita, ma perché è in cerca di un futuro migliore di quello che l’aspetterebbe se decidesse di rimanere in patria – dagli Stati dell’Africa sub-sahariana, rendendo estremamente difficile l’organizzazione dell’accoglienza da parte degli Stati di primo approdo, come l’Italia, la Grecia o Malta.
Il susseguirsi dei naufragi delle imbarcazioni di fortuna (barconi, scialuppe o persino gommoni) sulle quali profughi e migranti sono costretti a viaggiare – alimentando, con i loro pochi risparmi, il traffico di esseri umani allestito dalle organizzazioni criminali –ha trasformato il Mediterraneo in un luogo di morte, imponendo anche agli Stati europei non direttamente coinvolti in tale emergenza di confrontarsi con quelli più esposti in merito all’individuazione di soluzioni condivise.
Dopo l’ultimo immane naufragio di oltre 700 persone avvenuto lo scorso 18 aprile, si è finalmente compreso, seppur con grave ritardo, che le semplici dichiarazioni di circostanza innanzi a un dramma così immenso non erano oltremodo tollerabili e che l’Unione europea, nel suo insieme, doveva farsi carico di questa emergenza ormai divenuta un fatto ordinario.
Le norme europee attualmente in vigore sono state concepite per far fronte a flussi moderati di profughi – nel 2014 salito, invece, fino a circa 600.000 persone in tutta Europa – e risultano fortemente sbilanciate a sfavore dei Paesi più esposti, com’è appunto il nostro (ma non solo: nel 2014 hanno presentato richiesta di asilo in Germania quasi 203.000 persone, a fronte delle 59.000 presentate in Italia). Esse prevedono, infatti, che il Paese di prima accoglienza si faccia carico, oltre che dell’ospitalità e dell’assistenza ai profughi giunti sul suo territorio, dell’esame delle loro richieste di asilo. Poiché detto esame non è sempre agevole, dovendosi verificare la provenienza del richiedente da una zona di conflitto anche in assenza di un valido documento di riconoscimento, e la legittimità della sua domanda di protezione internazionale, accade che nel periodo necessario per l’accertamento dei requisiti il richiedente si allontani dal Paese di primo approdo per giungere in un altro Stato europeo. Questo, tuttavia, in base alle regole del cd. «sistema di Dublino», può legittimamente rifiutarsi di offrirgli protezione e “respingerlo” verso il Paese di prima accoglienza, che si troverà, quindi, nella condizione di dover gestire il duplice flusso di profughi in “arrivo” e in “rientro”. In alcuni casi recenti, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato, però, tale prassi (che è assolutamente vietata rispetto ai cd. Paesi extraeuropei “non sicuri”, dai quali cioè il richiedente asilo rischia il rimpatrio nel Paese di origine), laddove lo Stato di secondo approdo non tenga conto delle concrete condizioni di assistenza che il Paese di prima accoglienza è in grado di offrire. Queste decisioni, purtroppo, hanno riguardato anche l’Italia, nella duplice veste di Paese illegittimo “respingitore” e di Paese europeo “non sicuro” per via dei gravi difetti riscontrati nel suo sistema di accoglienza.
Il 13 maggio la Commissione ha inviato agli Stati membri una comunicazione dal titolo European Agenda on migration, recante una serie di proposte che, se accolte, nelle intenzioni dell’organo esecutivo dell’Unione europea dovrebbero orientare l’approccio al problema dell’afflusso dei richiedenti asilo e dei migranti irregolari verso una prospettiva di cooperazione multilaterale. Punti fondamentali dell’Agenda sono il potenziamento della flotta dedita al pattugliamento delle zone di transito dei barconi per prevenire i casi di naufragio, il contrasto al crimine internazionale di traffico di essere umani e la redistribuzione tra gli Stati membri di 20.000 richieste di asilo già presentate, in massima parte alle autorità italiane e greche. Nessuna proposta di “affondamento dei barconi”, quindi (ipotesi, del resto, tanto bizzarra quanto irrealizzabile senza una piena collaborazione del Paese di partenza e, in ogni caso, sempre meno preferibile a quella del sequestro preventivo con arresto dei trafficanti), ma solo un rafforzamento dei controlli e delle operazioni di recupero in mare, divenute meno efficaci dopo il passaggio dall’operazione «Mare nostrum» all’operazione «Triton».
Dopo la pubblicazione dell’Agenda sulla migrazione, la Commissione ha rinnovato agli Stati membri l’invito a una più stretta cooperazione in questo settore, emanando un’ulteriore serie di atti di implementazione: ha promosso anzitutto una consultazione pubblica sulle prospettive di riforma della normativa europea in materia di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati e ha adottato, altresì, un piano d’azione contro i trafficanti di persone e una raccomandazione che sostanzialmente ripropone il progetto di redistribuzione delle domande di asilo tra tutti gli Stati membri in proporzione alla loro popolazione, capacità di accoglienza, livello di qualità dei servizi, ecc., per alleggerire il carico di domande attualmente all’esame dell’Italia e della Grecia.
Si tratta, tuttavia, di atti non vincolanti, la cui attuazione è quindi rimessa alla buona volontà degli Stati membri. Ciò che il nostro governo ha annunciato come una “svolta” dell’Europa sul tema dell’immigrazione al momento è poco più di una promessa.
Fatto sta che Francia, Spagna, Germania e Gran Bretagna (quest’ultima formalmente non vincolata dal sistema di Dublino) hanno già dichiarato di non essere d’accordo con la ripartizione proposta dalla Commissione, sia nel metodo, sia nel merito: molto rumore per nulla?
Immagine dal sito www.francais.rt.com