Si chiama economia apolide il talento italiano all’estero?

di | 17 Giu 2015

Elaborazione Immagine di Carla Morselli

L’Economia Apolide è il titolo di un incontro di studio che si è tenuto recentemente al Censis e dallo stesso promosso in un più ampio programma di rivisitazione dei “ fondamentali “ della società italiana.
Nel convegno è stato punto centrale la indiscussa presa di coscienza che il processo di internazionalizzazione economica in atto ha aggravato, nella attuale situazione, i tre problemi negativi del nostro sistema: crollo della domanda interna, caduta degli investimenti produttivi ed accentuazione della crisi della finanza pubblica.
Sinteticamente si possono individuare tre sistemi virtuosi che pososono essere di contraltare e anche ottenere un effetto “ rivitalizzante “ del sistema economico del paese : aumentare della propensione all’export delle aziende italiane, favorire la ripresa degli investimenti esteri sul territorio nazionale ed infine il rafforzare la presenza imprenditoriale italiana all’estero.
La situazione descritta, ben presente tra gli analisti ed i soggetti pubblici con ruoli decisionali, è assai meno chiara nel corpo sociale del paese, complice la perdurante tendenza di gran parte della società politica del paese alla invasione anche nascosta della statalizzazione ed alla perdurante ingerenza pubblica ( tra l’altro eccesso di burocrazia ) nella gestione economica generale e delle iniziative sociali.
“Andare all’estero “ da parte di molti imprenditori è considerato un cinico nomadismo economico che viene associato alla perdita di responsabilità nei confronti del territorio ed di quella comunità locale cui sono dovute almeno inizialmente ,la nascita e la crescita del successo imprenditoriale.
Questa “ apolidia imprenditoriale” sino ad oggi ha riguardato in particolare i pochi grandi soggetti imprenditoriali espressi dal nostro paese ( solo tre sono le imprese italiane annoverate tra le cento corporation di livello mondiale) ed assi poco le Piccole Medie Imprese –PMI.
Infatti è interessante notare che due anni fà l’aggregato delle Grandi Imprese aveva fuori dall’Italia quasi lo 80% della produzione complessiva, invertendo completamente il dato dell’inizio degli anni duemila ( anni di riferimento 2003 e 2013 : fatturato nazionale 39,9% e 68,6% = diminuzione 7,2% , fatturato estero 31,4% e 60,1% = aumento 206,4% ).
Tra i grandi soggetti economici del Paese e le PMI sembra esservi ormai un rottura non sanabile : i primi giocano sul mercato mondiale con le regole della competitività globale ben diverse dalle regole interne nazionali con una sorta di “alterigia apolide”, mentre i secondi ,le PMI ,sono sempre più stressate e necessitano di uno sforzo di sostegno che fa fatica ad arrivare da parte pubblica , malgrado siano determinanti per la occupazione interna del Paese.
Si tratta in buona sostanza di consentire alle PMI di collocarsi nel mercato globale senza abbandonare l’appartenenza al loro territorio di partenza ed alla vita collettiva del Pese e, quindi, incrementando l’occupazione locale ed il made in Italy in tutte i suoi aspetti vincenti.
L’importanza della economia apolide è giustificata dal fatto che l’export è l’unico aggregato economico in espansione di un prorotto interno lordo che in Italia è stagnante ed in regressione da anni.
Le esportazioni di beni ammontano a 387 miliardi di euro per il 2014 e da oltre due anni consentono al nostro paese un saldo commerciale positivo, le esportazioni di servizi corrispondono a poco meno di 85 miliardi.
L’export complessivo ( beni e servizi ) rappresenta attualmente il 29,4 del Pil e l’ incremento di nove punti rispetto al 2000 è generato principalmente dalla produzione , mentre quello dei servizi risulta stabile.
Le imprese italiane ( praticamente tutte PMI ) sono 212.000 , in crescita negli ultimi anni a motivo di prodotti di alta qualità , di politiche di marchio efficaci e di prodotti al top di gamma.
La quota di mercato italiana nell’export globale è però da anni in calo progressivo, ma il dato è fisiologico ( lo stesso avviene per altri paesi europei eccetto la Germania) ed è dovuto alla crescita violenta dei paesi emergenti in primis Cina de India.
La importante partecipazione all’export delle micro imprese facenti parte delle PMI fa si che il 63% del totale si addensa nella classe più bassa di valore di beni esportato , cioè sotto il 75.000 euro con valore totale di export di poco superiore ai 2,3 miliardi di euro pari allo 0,6% del valore totale

dell’export italiano ,mente il grandi esportatori ( quelli che superano ciascuno i 50 milioni di euro) sono soltanto 942 realizzando però da soli circa la metà dell’intero export italiano .
Solo 4200 aziende esportano in più di 40 paesi realizzando però il 43% del fatturato italiano all’estero.
Esaminando i dati Istat-Ice si rileva che l’area di provenienza delle aziende esportatrici è assolutamente polarizzata : la sola Lombardia genera circa un terzo del totale , e con il Veneto, il Piemonte e l’Emilia Romagna si realizzano i due terzi dell’intero export nazionale.
Per quanto attiene alla attrazione di investimenti esteri in Italia i primi segnali di rinnovato interesse non deve trarre in inganno perché la debolezza del nostro paese ( poco più di 400 miliardi di investimenti dall’estero nel 2014) è rappresentata dal confronto con le altre nazioni e la quota italiana consiste in un misero 1,6% su un totale di 25 mila miliardi , in coda a tutti , sopravanzando solo la Grecia ed il Giappone da sempre piuttosto chiusi all’ingresso di capitali esteri nel loro ambiente produttivo.
Gli investimenti finanziari non cancellano il fatto che le imprese italiane sul territorio a controllo estero sono in continuo calo – dal 2007 sono 1100 in meno – con una perdita di 50.000 posti di lavoro e sono relativi ,naturalmente, a grandi aziende internazionali, che però vantano il 23,6% della spesa imprenditoriale per ricerca e sviluppo, valore importante sul piano interno italiano.              
Più che il costo del lavoro disincentiva l’interesse estero ad investimenti produttivi in Italia ( si escludono le speculazioni di Borsa) la scarsa attrazione del contesto paese : determinante il fattore “ efficacia di governo” e poi caratteristiche della forza lavoro e tecnologia. Suscitano interesse invece la forza dei nostri marchi . A proposito la forza del marchio si identifica sul mercato globale con la forza del “brand” cioè con la complessiva capacità della intera azienda ,management, forza lavoro, appeal e pubblicità per come si propongono sul mercato globale. Il made in Italy soltanto sembra avere valenza autonoma solo per limitati settori di prodotto di alta gamma e tecnologia ,oltre che ovviamente per le produzioni alimentari.
Per quanto attiene alla crescita della presenza italiana all’estero, le ragioni si riducono a due la prima difensiva per il contenimento dei costi del lavoro, delle tasse e della energia, e la seconda espansiva per avvicinarsi ai mercati di sbocco, acquisizione di tecnologie ed alleanze commerciali.
Fuori dai confini nazionali operano circa 22.000 aziende controllate da società italiane , aziende che occupano ben un milione e settecentocinquantamila addetti, con un buon incremento negli anni recenti sia di imprese che di addetti; anche il fatturato complessivo è cresciuto molto, passando da circa 389 miliardi di euro a più di 546 miliardi di euro. La localizzazione delle aziende più piccole è essenzialmente europea, mentre le più grandi sono quasi tutte operanti negli Stati Uniti.
L’unico aspetto che non risente delle criticità sistemiche del nostro paese ( eccessiva burocrazia incertezza del diritto e conflittualità e costo del lavoro) è la crescita delle reti di aziende italiane in franchising all’estero. I punti vendita nel mondo sono in continua crescita (oltre 8000) ed il fatturato complessivo si stima sia cresciuto negli ultimi quattro anni del 40% ; in particolare la spinta maggiore del fenomeno è data nel settore alimentare e della ristorazione , che si appoggia alla penetrazione dell’italian way of life nel mondo .
Un limitato fenomeno di “ritorno a casa” si è generato per alcune aziende italiane ( se ne contano 91 di media dimensione) causate in primo luogo dalla logistica complicata e costosa nei paesi esteri di approdo e la scarsa qualità della lavorazione locale.