SCISSIONI PD COME DISSOLUZIONE DC

Elaborazione Immagine di Carla Morselli
Le tensioni che investono in queste settimane il Partito Democratico non possono non evocare, pur nella diversità dei contesti e delle ragioni, il ricordo della drammatica e rapidissima dissoluzione della Democrazia Cristiana, consumatasi sostanzialmente nel corso di un anno, il 1993 e forse ancora imprevedibile fino all’anno precedente. Come il PD, ma con un’ “anzianità di servizio” molto maggiore, la Dc era il perno del sistema politico e della governabilità. Certamente logorata dal lungo esercizio del potere, sotto il profilo della capacità propositiva e della tensione morale, si era trovata di fronte a nuove sfide particolarmente insidiose. Nello scenario internazionale, dopo lo smantellamento dell’Unione Sovietica e la caduta dei regimi comunisti dell’Europa dell’est, era venuto meno quel “fattore K” che aveva concorso all’esclusione del Pci dalle responsabilità di governo. Tale partito, trasformatosi nel PDS nel 1990, appariva ormai pienamente legittimato, quale matura alternativa di governo. La questione morale e le gravi difficoltà economico-finanziarie crearono le condizioni per un attacco mediatico concentrico nei confronti dei partiti di governo, Dc e Psi, in particolare. Ricorreva proprio in questi giorni il venticinquesimo anniversario dell’evento comunemente indicato come l’inizio di Mani Pulite, che concorse sensibilmente, insieme ad altre numerose e analoghe iniziative giudiziarie che si svilupparono sul territorio nazionale, al tramonto della Balena Bianca. In quella stessa tormentata stagione, il movimento referendario otteneva il sistema elettorale maggioritario e l’elezione diretta dei sindaci che innescavano un tendenziale bipolarismo, mentre la Lega sottraeva alla Dc consistenti porzioni di elettorato nel nord. La stessa Dc, tuttavia, nelle elezioni politiche dell’aprile 1992, confermava ancora la sua maggioranza relativa, arrivando quasi a “doppiare” il suo maggiore concorrente, il nuovo PDS dell’on. Occhetto. Eppure, nell’arco di un anno e mezzo, a fronte delle sfide citate, insidiose, è vero, ma non invincibili, si diffuse nel partito di maggioranza un atteggiamento di “cupio dissolvi” che portò all’adozione di scelte e strategie che, fin dagli inizi, apparivano destinate a sicura sconfitta. Sembrava che il gruppo dirigente desse ormai per scontata la fine di un’esperienza politica e tendesse ad accelerarla, per imboccare poi nuove strade, in linea con la nuova deriva bipolare.
Ho sempre ritenuto, invece, che quel partito si sarebbe potuto salvare e avrebbe potuto svolgere il suo ruolo anche nella nuova fase bipolare, assumendo la guida del polo moderato ed evitando quindi a Berlusconi il “disturbo” di dover lasciare le sue impegnative attività editoriali, per riempire quel vuoto politico che si era venuto a creare. Un grande partito popolare, con una tradizione culturale di tutto rispetto e un solido radicamento sociale e territoriale, antichi collegamenti con una rete associativa ancora estesa nel Paese, anche nelle congiunture più sfavorevoli, avrebbe potuto trovare in se stesso gli anticorpi per reagire e fare fronte a quelle sfide. Avrebbe potuto e dovuto innescare un drastico rinnovamento dei gruppi dirigenti e delle dinamiche interne e rilanciare, in termini di proposta, di programmi, di apertura alla società civile. Prevalse invece la spinta autodistruttiva, che determinò una carenza nel sistema politico e nel nuovo schema bipolare di cui ancora scontiamo gli effetti. Con il risultato che i democristiani, per oltre vent’anni, hanno esperito tentativi di riaggregazione più o meno effimeri, che spesso si sono risolti in nuove lacerazioni. Oppure cercano asilo presso case altrui che poi si rivelano inospitali o estranee allo stile e alle impostazioni in cui si erano a lungo identificati. La storia democristiana, anzi, quella successiva alla fine della Dc, insegna come sia facile e rapida la demolizione di un colosso politico e come la ricostruzione si riveli spesso un’impresa insormontabile. Per questo gli uomini e le donne del Pd dovrebbero agire con estrema prudenza, prima di porre a rischio la tenuta e la sopravvivenza di un grande soggetto politico che appare tuttora decisivo per la governabilità e la stabilità del sistema, in un’epoca di protesta, dilettantismo e perdurante antipolitica e a fronte di un centrodestra ancora diviso e ridimensionato nel ruolo ! Per quanto accentuate possano rivelarsi le divergenze tra le parti contrapposte e pur emergendo un dissenso profondo della sinistra interna dalla linea, dallo stile e dalle scelte di Matteo Renzi, resta lo spazio per un confronto aperto, per un dialogo costruttivo che possa aprire nuovi spiragli. Pur con i suoi difetti, il PD è un partito popolare di massa, un “partito-partito”, come erano un tempo i grandi partiti, può vantare ancora una seria e capillare rete di militanza periferica e una classe dirigente di una certa preparazione e qualità, è governato da organi collegiali rappresentativi degli iscritti, svolge le primarie per la segreteria. Nella condizione caotica e disorientata della nostra odierna realtà nazionale questo è un patrimonio che dovrebbe essere preservato, a prescindere dalla condivisione o meno delle posizioni politiche ! Ora tutti sembrano trovare conforto nel probabile ritorno al sistema proporzionale che pare innescare una corsa a costituire nuovi partiti, ciascuno il suo partitino, a destra, a sinistra, al centro, per poi garantirsi una porzione di elettorato. Ma può essere questa la prospettiva ? Deve portare a questo il proporzionale ?! Miriadi di partitini, per avere poi un Parlamento “balcanizzato”, paralizzato dalle negoziazioni e dai ricatti ad oltranza e dai veti incrociati ? Il Pd ha costituito, negli ultimi dieci anni, una sorta di barriera, rispetto a questa deriva, così come ha cercato di farlo il PDL di Berlusconi, finché ha potuto. E non si pensi che, una volta frantumato il grande partito e realizzati i nuovi “minicontenitori”, pronti a spartirsi i residui dell’elettorato di sinistra – “residui”, perché molti, a quel punto, cederanno al richiamo irresistibile dei 5 Stelle – si riveli poi facile ripercorrere il processo inverso, riaggregando i piccoli raggruppamenti in un nuovo grande contenitore. Le piccole formazioni innescano poi rivalità, diffidenze, gelosie, pretese primazie, concorrenzialità personale dalle quali diventa assai difficile districarsi. Gli “atomi” continuerebbero a scindersi – almeno così è accaduto nell’eterna diaspora democristiana – allontanando ulteriormente una prospettiva unitaria. Di fronte alla crisi di un grande partito, la scelta più ragionevole e prudente, per una minoranza dissenziente, è quella dell’opposizione interna, della sfida per la segreteria, l’opzione adottata da Michele Emiliano che, comunque vada, si guadagnerà così una sua sfera di influenza nel partito e una capacità di condizionamento della sua linea politica. Nel ricordo della tragica esperienza della Dc del 1993 e delle sue conseguenze, assume particolare valore il monito a non lasciare la “ditta”, più volte ribadito dall’on. Bersani. Anche se proprio lui, a quanto pare, la starebbe abbandonando !!
di Alessandro Forlani