LE RIFORME MANCATE, LE ILLUSIONI PERDUTE

di | 1 Gen 2018

Opera di Rafal Olbinski

                      Opera di Rafal Olbinski

Giunti alla fine di questa – ennesima – turbolenta legislatura, segnata dalla parabola renziana come uno spettacolo pirotecnico più volte annunciato, ma mai realmente andato in scena, il prossimo 4 marzo ci ritroveremo, nel segreto dell’urna, a scommettere sui prossimi cinque anni di futuro comune. Prima di allora, ognuno di noi è chiamato a riflettere su ciò che è (non) è stato e su ciò che sarà, o almeno vorremmo che fosse.
Diciamolo chiaramente: era lecito aspettarsi di più. Il livello di sviluppo del nostro Paese, se rapportato a quello dei cugini europei più rappresentativi, è ancora troppo basso. Crescita, innovazione e modernità continuano a farci difetto.
Eppure, il dinamismo un po’ iconoclasta del primo Renzi ci aveva fatto ben sperare, suscitando persino nei più scettici e nei detrattori a oltranza una genuina curiosità sull’attitudine del sindaco di una «pretty, old town» (secondo la caustica definizione di Sergio Marchionne) ad assumere la leadership nazionale.
Non sarà mica – ci chiedemmo allora – che la stagione delle eterne promesse berlusconiane, seppellita dalle macerie del collasso dei conti pubblici e dal «time over» imposto dalle formiche teutoniche al canto perenne delle cicale mediterranee, è davvero finita?
E, invero, l’agenda renziana era molto ambiziosa: fisco, lavoro, giustizia, pubblica amministrazione, lotta ai privilegi della casta, temi etici, cittadinanza… una ventata di modernizzazione culminante con la modifica della Carta costituzionale, per consentire anche al nostro Paese di fare – finalmente – il suo ingresso nel terzo millennio.
Poco importa se al Moloch delle riforme fosse necessario tributare qualche sacrificio di troppo (il disarcionamento di Enrico Letta al cinguettio di «stai sereno», il Patto del Nazareno, la spesso ingombrante presenza dei centristi nell’esecutivo e l’appoggio esterno di frange del centrodestra in Senato). E poco importa pure se, nei momenti di difficoltà, la narrazione renziana perdesse la sua forza evocativa, rifugiandosi nella stucchevole retorica della rottamazione e nell’invettiva contro i «gufi». Si trattava, in fin dei conti, di marginali incidenti di percorso, almeno in apparenza.
Nel bene e nel male, Renzi era l’homo novus, l’Ottaviano Augusto apparso tra le nebbie del declino della seconda Repubblica per guidare il Paese fuori dalla crisi, per convincere gli italiani che «Yes, we can too» e l’Europa che un’altra Italia esiste davvero.
Ma, come tutti sappiamo bene, qualcosa non ha funzionato.
La spinta propulsiva della visione renziana, esauritasi ben prima del fatidico 4 dicembre 2016 (giorno in cui è apparso chiaro ancora una volta a tutti che la personalizzazione dell’azione riformista, specie quando in gioco ci sono… le regole del gioco, in Italia – per fortuna – non funziona), si è definitivamente interrotta con la vittoria del No al referendum costituzionale. E con essa si è interrotto il canale di comunicazione che partecipava quella visione all’intero Paese.
Da allora il generale si aggira nel suo labirinto, nel tentativo di ritrovare lo slancio iniziale. E sebbene l’Italia nell’ultimo anno sia stata guidata più che dignitosamente dal nuovo esecutivo di Paolo Gentiloni, la sensazione diffusa è che un’altra buona occasione per migliorare la nostra vita e la nostra società sia andata perduta per sempre.
Le nostre illusioni – che oggi tutti rinnegano di aver mai avuto, per un distorto sentimento di cinica autodifesa – sono andate perdute insieme alle riforme mai varate. Una volta di più, torniamo alle urne con un senso di profonda incertezza. Sulle nostre spalle pesa il fardello di un enorme debito pubblico che frena qualsiasi ambizione di crescita e di un altrettanto enorme debito di fiducia nei confronti di chi si assumerà l’onere di governarci. Siamo spaventati dall’immigrazione – al punto da rifiutarci incomprensibilmente di far diventare cittadino italiano chi vive accanto a noi da lunghissimo tempo, associandolo sbrigativamente al migrante o al richiedente asilo in fuga dalla morte – mentre dovremmo preoccuparci molto più seriamente di chi lascia la nostra terra per fuggire dal triste immobilismo in cui versiamo da decenni. Giovani e adulti che contribuiranno a rendere migliore qualche altro Paese. Rigurgiti di fascismo evocano mostri che il «sonno della ragione» è costantemente in grado di generare. La situazione, insomma, è piuttosto grave e, quel che è peggio, sembra anche seria.
Nel frattempo, là fuori, l’Europa tutta è tornata a correre, mentre noi continuiamo a camminare con passo incerto. Diamoci allora nuove occasioni per crescere e migliorarci: le riforme siamo noi, verrebbe da dire. Impegniamoci a creare le condizioni per realizzarle. E pretendiamo, da chi verrà, un impegno serio per costruire un futuro diverso, non nuove ricette per tirare a campare. Per quelle siamo già bravissimi da soli.

di Nicola Colacino