Aretha Franklin
Ho sempre associato Aretha Franklin al film The Blues Brothers, perché è lì che l’ho ammirata per la prima volta. Nell’archivio musicale che ho in testa, per questo motivo, l’ho messa accanto a Ray Charles. E’ una figura che non ho mai messo a fuoco per davvero, come tutti i protagonisti della musica nera, essendo sempre stato un appassionato di musica fatta da albionici o americani, in genere bianchi, tossici, briachi, spesso morti giovani.
Al di là del cliché che accomuna tanti artisti afroamericani, la mia immaginazione riserva proprio ad Aretha il posto dell’artista che nasce e cresce nella sofferenza e dà un calcio a una vita di merda diventando una star di caratura mondiale. Un’immagine che vedo contrapposta a quella di Diana Ross, che vedo più come una signora della musica, elegante, raffinata, ricercata.
Aretha per me è sempre quella che fa la rospata al marito, col sinale e le ciabatte, nel film. Esiste una classificazione che ciascuno di noi fa della musica che ha ascoltato, poca o tanta che sia, che va al di là delle puntuali rievocazioni fatte dai giornalisti del ramo nei coccodrilli che riempiono pagine di siti e giornali.
Classificazione che produce liste improbabili, come al tempo in cui si facevano cassette da regalare alle tipe o da ascoltare in macchina, che accozzavano stili e selezioni musicali. Per me Aretha era la voce più bella, l’inarrivabile.
Si aggiunge alla lista di stelle della musica finite al cimitero: noi appassionati della musica di quel periodo non facciamo altro che depennare nomi dalla lista dei vivi.
Musica che sopravviverà ai suoi interpreti, come ha già fatto con i grandi del blues e del jazz, ma questo è il segno di un mondo che passa via e se ne va, del congedo dalla vita di una generazione che è invecchiata e che ha fatto rivoluzioni che sembrano enormi.
Ma forse lo sono soltanto per noi, perché ci riguardano direttamente.
di Pancrazio Anfuso
Articolo pubblicato sul sito postpank.wordpress.com
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