DOPO REGIONALI E REFERENDUM IL GOVERNO NON HA PIU’ ALIBI PER IL RILANCIO DEL PAESE
Il test elettorale nelle sette regioni che hanno rinnovato consigli e governatori il 20 e 21 settembre ha suscitato una certa apprensione ed attenzione, alimentate dalla sensazione che le consultazioni si rivelassero prodromiche di sensibili rivolgimenti negli equilibri nazionali. Soprattutto le due regioni nelle quali i sondaggi profilavano un esito più incerto – Puglia e Toscana – sembravano costituire, nell’immaginario collettivo, una sorta di banco di prova della tenuta dello schema di gioco su cui si regge il governo centrale attualmente in carica. In realtà, il collegamento tra l’esito di questo voto regionale – peraltro parziale – e la tenuta del governo doveva ritenersi assai labile, oltre che tecnicamente inesistente.
Il dato complessivo può ritenersi, comunque, un sostanziale pareggio che, secondo le valutazioni più diffuse, consolida il governo in carica e, in particolare, imprime maggiore carica ed ottimismo al Partito Democratico, rafforzando la posizione del segretario politico, Nicola Zingaretti, ora in una posizione contrattuale di maggior vantaggio nei confronti del principale alleato di governo, il Movimento 5 Stelle, reduce da un risultato non certo entusiasmante, come peraltro anche un altro alleato di governo del PD, Italia Viva, che forse confidava in un migliore responso delle urne. Né vale ad esorcizzare il deludente risultato dei 5 Stelle la contestuale vittoria del Sì nel referendum sulla riduzione dei parlamentari, riforma fortemente voluta dal Movimento. Questo si ritrova, infatti, in una condizione di sensibili conflittualità interne e di fronte all’esigenza sempre più impellente di una scelta di campo tra istanze contrapposte. Da una parte i fautori di un ritorno ad un certo movimentismo antisistema, dall’altra i “governisti”, orientati a consolidare l’alleanza con il PD, fondamentale per garantire la sopravvivenza dell’esecutivo in carica. In questo contesto, il PD a guida Zingaretti viene a trovarsi con il pallino in mano, rispetto alla nuova fase che dovrà essere ora innescata, ai fini di imprimere nuovo impulso all’azione di governo, per salvare il Paese dalla recessione, dalla stagnazione, dai rischi di una deriva debitoria insostenibile per le finanze pubbliche. Il mancato “sfondamento” dello schieramento di centrodestra nelle regionali e la buona affermazione del PD alimentano, infatti, un clima di maggiore serenità per la navigazione governativa, peraltro favorita dall’alto indice di gradimento di cui gode tuttora il premier Giuseppe Conte, nell’opinione pubblica. E’ dunque giunto il momento di mettere a fuoco un programma aggiornato di interventi cui destinare i fondi stanziati dall’Unione Europea. Alla politica, Governo e Parlamento in particolare, spetta la fissazione delle priorità e delle esigenze, con estrema attenzione alla concretezza, alla fattibilità e all’attualità delle misure e dei progetti, in un sistema Paese che evidenzia una cronica difficoltà proprio nell’erogazione della spesa pubblica e, in particolare, nell’assorbimento dei fondi europei, realizzando tempestivamente gli investimenti. Considerando le sovvenzioni derivanti dal Recovery Fund, i 10-12 miliardi per le politiche di coesione regionale (React-Eu) e la parte di risorse della Programmazione 2014-2020 ancora da spendere (incluse quelle del cofinanziamento nazionale), l’Italia avrà a disposizione circa 120 miliardi, da erogare nei prossimi tre anni. Un tema a parte è rappresentato, poi, dal Mes, da utilizzare nel settore della sanità e che è tuttora oggetto di serrato confronto nella maggioranza di governo, a causa del dissenso dei 5 Stelle. Non si può quindi perdere tempo e occorre definire una chiara strategia di intervento. Si rivela necessaria l’individuazione di progetti che sviluppino incrementi di valore e di ricchezza. Puntare al potenziamento e alla creazione di infrastrutture e servizi non effimeri che possano consentire un impatto duraturo sullo sviluppo, con positivi riflessi, in termini di occupazione, di competitività e di crescita, tenendo, peraltro, conto che queste risorse comunitarie, in buona parte, costituiscono un prestito che, prima o poi, occorrerà restituire.
Immagine dal sito www.ricostruireitalia.it
di Alessandro Forlani
Alessandro Forlani
Nato a Roma il 12 marzo 1959.
Laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” con il massimo dei voti.
Consigliere comunale di Roma dal 1985 al 1989.
Consigliere regionale del Lazio dal 1991 al 1995. In questo periodo riveste l’incarico di Presidente del Collegio Revisori dei conti e poi quello di Presidente della Commissione Cultura e Personale. Per alcuni anni è anche membro della Commissione Sanità.
Avvocato, si è dedicato ad attività di contenzioso in sede civile e amministrativa.
Ha svolto attività di collaborazione giornalistica con testate varie su temi di carattere sociale, economico, giuridico e istituzionale e pubblicato diversi articoli di politica estera.
Senatore della Repubblica eletto nelle Marche (Macerata-Osimo) dal 2001 al 2006.
Eletto deputato nella XV legislatura (2006-2008), è stato capogruppo Udc nella Commissione Esteri della Camera dei Deputati e membro della Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare INCE. Alla Camera dei Deputati è stato primo firmatario di numerosi progetti di legge.
Cofirmatario e relatore, sempre alla Camera dei Deputati, di diverse altre proposte di legge.