Come ogni quattro anni il mondo è con il fiato sospeso per la prossima elezione del Presidente degli Stati Uniti d’America. Per decenni è stato il voto elettorale con maggiori ripercussioni sugli equilibri internazionali visto il ruolo politico che gli USA giocano sullo scacchiere globale, almeno dal secondo dopo guerra in poi. Ma questa volta assume anche un’altra connotazione rispetto a quella geopolitica classica derivante dal fenomeno politico globale chiamato Trump.
A prescindere dal giudizio che si voglia dare al suo primo mandato presidenziale, è indubbio che la discesa in campo di Donald Trump ha mutato alcune delle categorie del political correct, sdoganando un certo modo di fare politica che parla alla pancia del paese e puntando alla continua spettacolarizzazione della politica, con un incessante uso dei social media e delle voci antagoniste che per anni erano rimasti fuori dal coro istituzionale. La continua ricerca del nemico a cui contrapporsi (il terrorismo, la minaccia nucleare estera, il virus cinese, la sinistra radicale, etc) a cui attribuire tutte le colpe davanti al popolo ha fatto scuola, dando nuova linfa a quei gruppi (più o meno grandi, più o meno estremisti) di una destra conservatrice nazionalista che si è resa protagonista negli ultimi anni della cosi detta ascesa del populismo in tutto il mondo.
A tale fenomeno il Partito Democratico americano ha scelto di contrapporre una candidatura rassicurante per l’establishment internazionale, l’ex vice presidente Joe Biden, una figura con grande esperienza politica, nell’intento non solo di raccogliere i non pochi già convinti che avrebbero comunque votato “chiunque per mandare a casa Trump”, ma soprattutto per pacificare un contesto politico in perenne ebollizione, rassicurando tutti i diversi interessi che vogliono tornare alla normalità della vita politica di Washington.
Biden ha dalla sua l’ex Presidente Obama come principale testimonial, una classe media moderata spaventata dalla continua spettacolarizzazione dello scontro in politica che lambisce anche la base dell’elettorato repubblicano, ma soprattutto i dirompenti effetti di una pandemia che pare inarrestabile non solo in alcuni Stati americani, ampiamente sottovalutati e addirittura derisi dalla precedente amministrazione.
Anche per questi motivi gran parte dei sondaggi attribuiscono a Biden la vittoria, ma nessun commentatore si sente di escludere una possibile rimonta, vista la dimensione e l’aggressività del fenomeno trumpiano. Ovviamente il risultato elettorale, e le possibili polemiche che questo potrebbe successivamente comportare, avrà un impatto notevole anche nelle ben consolidate relazioni transatlantiche.
E’ bene, infatti, rammentare che Trump è stato uno dei maggiori supporter della Brexit, fermo sostenitore dell’inutilità di numerose Organizzazioni internazionali e in generale contestatore della dottrina del multilateralismo che vede nell’Europa il principale partner strategico americano. L’amministrazione Trump ha riaperto diversi fronti latenti di conflitto, a cominciare dalla guerra dei dazi alle esportazioni non solo cinesi; si è avvicinata a molte posizioni russe e disimpegnata da quadranti geografici caratterizzati da equilibri politici instabili, lasciando spazi di manovra ad altri soggetti emergenti.
Portando all’estreme conseguenze la propaganda del America first, si è giunti a mettere perfino in dubbio l’attuale validità dell’Alleanza atlantica, storico baricentro della politica estera occidentale.
Non è che la Presidenza Obama non avesse inciso su alcune di queste priorità attraverso la maggiore attenzione alle relazioni con i paesi dell’oceano pacifico, ma non aveva mai messo in discussione i tradizionali capisaldi della politica estera statunitense. Prevedibilmente un’ipotetica Presidenza Biden dovrebbe porsi in continuità con quella di Obama di cui faceva parte e recuperare almeno in parte la special partnership forgiata nel secolo scorso con gli alleati europei.
Ciononostante il fenomeno Trump è stato dirompente nei tradizionali equilibri internazionali, costringendo gli Stati europei a ripensare il loro ruolo nel mondo, sempre più autonomo e dunque necessariamente autosufficiente dall’ombrello protettivo del grande fratello d’oltreoceano. Questo processo, indotto da un sempre maggiore disimpegno dell’alleato americano, ormai è iniziato e difficilmente potrà tornare indietro o solamente fermarsi.
Tuttavia non sarà indifferente per le future scelte di politica estera della UE sapere se chi siederà alla casa bianca vorrà continuare ad essere un affidabile partner su cui contare per costruire un nuovo sistema di sicurezza globale o solo un sicuro alleato con cui però si dovrà fare spesso i conti. Bruxelles aspetta cosa succederà a Washington con legittime speranze, ma con la certezza che comunque vada dovrà ripensare il ruolo dell’Unione europea nel mondo e attrezzarsi di conseguenza per essere all’altezza delle nuove sfide globali di cui oggi tutti gli europei sono sempre più consapevoli.
Immagine dal sito www.tpi.it
di Paolo Acunzo
Biografia di Paolo Acunzo
Nato a Roma nel 1971, padre di due figli, dopo la laurea in Scienze politiche ha conseguito il titolo di Esperto in diritto, economia e politiche dell’Unione europea. Ha lavorato diversi anni a Bruxelles presso il Parlamento e la Commissione europea. E’ stato European Affairs Adviser per diverse organizzazioni. Attualmente rappresenta l’Italia in alcuni comitati tecnici comunitari e tiene le relazioni con istituzioni, agenzie e industrie europee per uno dei principali Enti di Ricerca nazionali. Vice Presidente nazionale del Movimento Federalista Europeo.
Biografia e Immagine dal sito www.eurobull.it
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