Cercasi flop disperatamente. I dati contro il pessimismo sull’economia italiana
Cercasi flop disperatamente. I dati contro il pessimismo sull’economia italiana
La forte ripresa ha già spiazzato “i profeti di sventura”, che non a caso l’hanno derubricata a semplice rimbalzo
Il pessimismo sull’economia italiana è andato molto di moda nei primi vent’anni del nuovo millennio ed ha certamente avuto le sue buone ragioni. In effetti, sull’arco dell’intero periodo e anche lasciando da parte l’anomalo 2020 caratterizzato dalla pandemia, l’Italia è stata tra i Paesi del mondo con la più bassa crescita del Pil dalla fine del secolo scorso in poi. Ciò ha alimentato, da un lato, la diffusa convinzione che l’intero ultimo ventennio sia stato un disastro per la nostra nazione. Dall’altro lato, ha diffuso e radicato uno storytelling molto negativo secondo cui l’Italia sarebbe ormai condannata a un irreversibile declino. Questi modi di vedere e queste rappresentazioni a tinte fosche del nostro Paese sono stati a lungo peculiari delle più variegate correnti di pensiero, magari connotate ideologicamente sugli opposti lati dell’iper liberismo e dell’iper statalismo ma convergenti nelle conclusioni.
Personalmente preferisco la prova dei dati, ai quali mi riferirò nel seguito. In premessa voglio però segnalare che la forte ripresa italiana dopo la pandemia ha già molto spiazzato “i profeti di sventura”, che non a caso l’hanno subito derubricata al rango di un semplice rimbalzo nel maldestro tentativo di minimizzarne la portata. Figuriamoci che cosa potrebbe succedere adesso se con il PNRR il Governo Draghi riuscisse finalmente a completare quelle riforme, attese da anni, essenziali per portare l’Italia verso una crescita stabile e duratura. Perciò, non c’è da meravigliarsi se tra costoro c’è chi sembra tifare apertamente per un flop della ripresa e perfino di Draghi. Con ciò svalutando lo spirito di coesione nazionale e l’impegno di soggetti istituzionali, imprese e lavoratori, tutti protesi a uscire dalla peggiore crisi del Dopoguerra, come auspicato dal Presidente della Repubblica.
Ma veniamo ai dati.
Innanzitutto, la tesi che l’intero ultimo ventennio sia stato un continuo calvario per l’economia italiana è sconfessata dai fatti, essendo stato il periodo 2015-2019 un ottimo quinquennio, una specie di rinascita, grazie ad alcune prime riforme e a politiche economiche efficaci come il Piano Industria 4.0. Inoltre, se in questo momento l’economia italiana si sta già riprendendo vigorosamente dopo il Covid-19, ancor prima che il PNRR sia partito, non è soltanto per un effetto di rimbalzo, che pure in parte c’è, ovviamente, ma proprio perché le riforme e le politiche attuate in precedenza, soprattutto nel periodo a cavallo tra il 2015 e il 2017, hanno notevolmente rafforzato la nostra competitività e produttività.
Di fatto, tutti i luoghi comuni sull’economia italiana sedimentatisi in tanti anni di cupo pessimismo sono stati letteralmente spazzati via dai progressi del quinquennio 2015-2019, in particolare dei suoi primi quattro anni. I numeri parlano chiaramente, ammesso che si voglia leggerli davvero.
Cominciamo dal luogo comune secondo cui le aziende italiane investono poco, perché nostre le piccole e medie imprese (“colpevoli” anche di essere a prevalente proprietà familiare, come se fosse un peccato mortale) avrebbero il “braccino corto” e sarebbero inadatte a competere nel nuovo scenario della globalizzazione. In realtà, le PMI sono da sempre il vero patrimonio dell’Italia (per intraprendenza, investimenti, innovazione, proiezione sui mercati mondiali) non un suo punto di debolezza, come invece ci ha sempre raccontato una certa vulgata. E, come abbiamo già sottolineato in precedenti interventi, è stato sufficiente negli ultimi anni varare per la prima volta dei provvedimenti sistematici a favore (e non contro) le imprese, come ad esempio il Piano Industria 4.0, per generare addirittura un autentico boom di investimenti. Basti pensare che gli investimenti fissi lordi totali in Italia sono cresciuti nel quadriennio 2015-2018 ad un tasso medio annuo del 3%, con un balzo enorme proprio nelle regioni dove ci sono più PMI, come il Veneto (+5,4% medio annuo, cioè quasi come la Cina, +5,8%!) o l’Emilia-Romagna (+4,4% medio annuo).
In particolare, la crescita degli investimenti fissi lordi nell’ambito specifico dell’industria manifatturiera (Figura 1) ha raggiunto un apice in Italia proprio negli anni di piena attuazione del superammortamento e di Industria 4.0, cioè il triennio 2016-2018: infatti, in tale triennio gli investimenti dell’industria manifatturiera sono aumentati in Italia ad un tasso medio annuo del 6,3%, con punte del 7,1% medio annuo nel Nord Est e addirittura del 9,1% in Veneto (terra d’elezione di quelle PMI famigliari tanto denigrate dai nostri pessimisti di professione).
Per quanto riguarda i soli investimenti fissi lordi in macchinari nell’industria manifatturiera, nel triennio 2016-2018, l’incremento medio annuo in Italia è stato del 6,8% contro il +3,8% della Germania. Nel 2018, il valore a prezzi concatenati 2015 degli investimenti in macchinari dell’industria manifatturiera italiana ha raggiunto un massimo di 44 miliardi di euro, cioè una cifra davvero notevole se paragonata ai 18 miliardi dell’industria francese e ai 58 miliardi della mega industria tedesca (con cui siamo alla pari in termini pro capite).
Non è nemmeno vero che le nostre imprese fanno poca ricerca e innovazione. Affermazione che si sente spesso fare sulla base dal dato aggregato che l’Italia ha una bassa percentuale di spesa in R&S sul PIL. Infatti, nei settori dove siamo forti e specializzati la nostra spesa in R&S è alta. Si prenda ad esempio la meccanica. In questo settore le nostre imprese hanno investito nel 2018 poco meno di 2 miliardi di euro in R&S e sono seconde in Europa solo alle imprese tedesche. In poco meno di un decennio la nostra R&S nella meccanica è cresciuta di quasi un miliardo di euro.
Ecco perché poi viene sfatato, di conseguenza, anche un altro luogo comune radicato. Quello secondo cui la nostra industria crescerebbe sempre poco e soffrirebbe di una bassa produttività. È certamente stato così nei primi tre lustri del XXI Secolo. Ma dopo no. Infatti, nel quadriennio 2015-2018 il valore aggiunto dell’industria manifatturiera italiana è aumentato in termini reali del 2,7% medio annuo (come quello della Corea del Sud), contro il +2,3% della Germania e il +0,9% della Francia. In Veneto la crescita è stata del 3,3% medio annuo; in Emilia-Romagna addirittura del 4,2%.
Per quanto riguarda la produttività, poi, l’Italia vanta dal 2014 la più forte crescita reale della produttività del lavoro (valore aggiunto per occupato a prezzi costanti) nell’industria manifatturiera rispetto a tutti gli altri Paesi del G7 e anche rispetto a un temibile concorrente europeo come la Spagna (Figura 2). In particolare, secondo i dati OCSE, la nostra produttività manifatturiera è aumentata del 9,3% tra il 2015 e il 2018.
Quanto ai livelli della produttività stessa, un altro aspetto del tutto sconosciuto ai più è che nel settore manifatturiero italiano la presenza di un notevole numero di microimprese con meno di 20 addetti (imprese peraltro utilissime per il loro ruolo sociale e di supporto alle filiere) abbassa in modo abnorme la produttività media dando la falsa impressione che il nostro sistema produttivo nel suo complesso sia fragile. In realtà, se prendiamo la Germania come benchmark e se escludiamo le microimprese e l’industria dell’auto, possiamo constatare che tutte le categorie di imprese italiane hanno una produttività del lavoro più elevata delle corrispondenti imprese tedesche.
Lo dimostrano i dati strutturali di impresa dell’Eurostat relativi al 2018, anno culminante del progresso della nostra produttività, grazie allo straordinario shock positivo del Piano Industria 4.0. Infatti, la produttività delle piccole imprese manifatturiere italiane con 20-49 addetti (60.300 euro per occupato) è nettamente superiore a quella delle analoghe imprese tedesche (50.800 euro) e il divario a nostro favore è ancor più largo nel caso delle medie imprese con 50-249 addetti (77.900 euro per occupato le medie imprese italiane contro i 60.300 euro delle tedesche).
Non solo. Anche nel caso delle grandi imprese con 250 e più addetti, esclusa l’auto, la produttività manifatturiera media dell’Italia è più alta (95.900 euro per occupato) di quella della Germania (92.300 euro). E benché il numero e il peso delle grandi imprese in Germania sia molto più importante che in Italia, la produttività manifatturiera media dell’Italia di tutte le imprese da 20 addetti insù (80.600 euro per occupato) riesce ad essere più alta, seppure di poco, di quella della Germania (80.100 euro).
In definitiva, non esiste un problema di produttività bassa o stagnante nel settore manifatturiero italiano. Se si vuole veramente investigare il problema della debole produttività complessiva del nostro Paese bisogna piuttosto guardare altrove e cioè al settore pubblico e agli ambiti dei servizi ancora poco liberalizzati.
Passando al commercio estero, i sostenitori del nostro declino irreversibile si incartano poi da soli affermando che la quota di mercato dell’Italia nell’export globale è stabile al 2,9% (ancorché in un mondo sempre più competitivo e con tanti concorrenti emergenti). Essi stessi però riconoscono che Germania e Francia hanno invece perso qualche posizione negli ultimi anni. Allora diciamolo meglio. Nel 2014 l’Italia era settima per export tra i Paesi del G20 con una quota di mercato mondiale del 2,8% dietro a Cina, Stati Uniti, Germania, Giappone, Corea del Sud e Francia. Nel 2020 la nostra quota è aumentata al 2,9% e siamo saliti al sesto posto superando la Francia, che ha perso due decimali.
Se consideriamo gli ultimi dieci anni, che hanno visto il gigante cinese fare incetta di quote di mercato a discapito di tutti gli altri concorrenti, osserviamo che dal 2010 al 2020 l’Italia ha perso solo 4 decimali percentuali in termini di quota nell’export mondiale, mentre la Germania ha perso 1,1 punti percentuali, il Giappone 1 punto, la Francia 1 punto. L’Italia ha tenuto meglio di altri competitor anche perché ha saputo diversificarsi in nuove specializzazioni. Ad esempio, in un settore hi-tech come la farmaceutica la quota dell’Italia nell’export mondiale è salita dal 4% del 2010 al 5,4% del 2020.
Ma quel che più conta, ai fini di una misurazione del miglioramento della nostra competitività negli scambi mondiali, è la dinamica della nostra bilancia commerciale con l’estero, che dal 2010 al 2021 è passata da un deficit di 40 miliardi di dollari a un surplus di oltre 82 miliardi, ponendoci al quarto posto nel G20 per attivo commerciale dopo Cina, Germania e Russia.
Sappiamo tutti che l’export da solo non basta a far aumentare il PIL, perché la domanda interna è una componente più importante di quella estera nella generazione della crescita. Però è un dato di fatto che l’Italia grazie al suo settore privato è oggi molto più forte adesso nella competizione mondiale di quanto non lo fosse dieci anni fa. E proprio la maggiore competitività ci ha permesso di migliorare notevolmente la nostra posizione finanziaria netta sull’estero, in tal modo compensando anche il finanziamento estero del debito pubblico italiano. Al punto che, secondo il Fondo Monetario Internazionale, nel 2020 per la prima volta da quando si calcolano queste statistiche siamo entrati a far parte della ristretta cerchia dei Paesi del mondo con una net investment position positiva, assieme, tra le altre, a economie europee virtuose come Olanda, Germania, Danimarca, Svezia e Austria e a economie del mondo forti esportatrici di manufatti o ricche di materie prime come Cina, Giappone, Corea del Sud, Russia, Arabia Saudita e Sud Africa. L’Italia, cioè, è oggi diventata un creditore netto verso il mondo (Figura 3).
Ma anche la domanda interna negli ultimi anni ha fatto passi in avanti nel nostro Paese, cosa mai avvenuta in precedenza nell’era dell’euro. Abbiamo già parlato del boom degli investimenti privati. Ebbene, anche i consumi pro capite delle famiglie italiane sono ripartiti molto bene nel quinquennio prima della pandemia. È però diminuita la nostra popolazione e inoltre ci è mancato il contributo del settore pubblico. Altrimenti il nostro PIL totale, perlomeno al Nord, sarebbe cresciuto come quello della Germania.
Indubbiamente, esiste in Italia un problema demografico, che va a ripercuotersi pesantemente sull’economia. Infatti, anche se la spesa per abitante aumenta ad un buon ritmo e magari di più che in altri Paesi, è difficile far crescere i consumi totali e quindi il PIL se gli abitanti diminuiscono. Si consideri ciò che è avvenuto in Italia negli ultimi anni. Tra il 2015 e il 2019 i consumi pro capite delle famiglie sono aumentati di più in Italia (+7%) che in Germania (+6,4%) e in Francia (+5,7%), cosa mai avvenuta su un così lungo arco temporale dall’avvio della moneta unica. Ma in Germania e Francia nel frattempo è anche aumentato il numero dei consumatori, perché la popolazione dal 2015 al 2019 è cresciuta, rispettivamente, di 2,1 milioni e 1,3 milioni di persone, mentre invece l’Italia ha perso consumatori, essendo la nostra popolazione diminuita di quasi 600 mila abitanti.
Tuttavia, problema demografico a parte con il suo impatto negativo sui consumi, la domanda interna del nostro Paese potrà ora beneficiare del PNRR per rilanciare gli investimenti in infrastrutture e gestire la transizione ecologica e digitale. Perciò la accresciuta competitività della manifattura, la ripresa in corso dell’edilizia e l’impulso del PNRR costituiscono un mix di fattori positivi che potrà ragionevolmente garantire all’Italia un orizzonte di crescita finalmente soddisfacente, ben diverso da quello dei primi quindici anni di questo secolo.
dal sito www.huffingtonpost.it