LA RABBIA

                               Mario Battimiello, Rabbia

Inflazione e costo del lavoro sono due macrotemi che ci accompagnano da anni. Poi sono arrivati il Covid, i sussidi e i relativi blocchi. La rabbia dei cittadini però, non è colpa solo della politica.
Si deve tenere conto della rabbia. Non può essere ignorata. Non appena rieletto, Macron ha promesso: saprò occuparmi della rabbia. Ma di chi? Per cosa? I salari bassi, l’inflazione, si dice.

L’inflazione abbiamo provato a innescarla, per anni, con politiche monetarie espansive. Molto espansive. Erano gli anni in cui si andava dicendo che c’era troppa austerità. Una poco austera alterazione della realtà. Eppure, per molto tempo, l’inflazione non si è fatta vedere, stando ben al di sotto del 2% auspicato. Segno che l’acqua c’era, ma la bestia non beveva.
A tenere bassi i costi contribuiva il basso costo dell’energia (suona strano, oggi) e manufatti vendibili a prezzi più convenienti, grazie alla globalizzazione. Interi settori, come i viaggi aerei e le telecomunicazioni, hanno visto crollare i prezzi e aumentare enormemente l’offerta. Grazie alla concorrenza. Ci si lamentava, ci si lamenta sempre, ma funzionava.

I salari bassi? Ma il costo del lavoro non è mica sceso e il potere d’acquisto non è stato eroso dall’inflazione, che non c’era o era assai bassa (se è per questo abbiamo avuto anche dei passaggi in deflazione, quindi il potere d’acquisto è salito). Il nostro problema – nostro italiano più che altrove, ma in generale europeo – è che il costo del lavoro è decisamente più alto delle remunerazioni dei lavoratori. Con la differenza ci si paga uno Stato sociale assai esteso e costoso, non privo di disfunzioni e marce degenerazioni, in ogni caso considerato irrinunciabile e da mantenere, pur a fronte di una leva demografica che ne urla la futura insostenibilità.
Infine sono arrivati il Covid, i relativi blocchi, i “ristori”, i sussidi, le posticipazioni fiscali, i costi sanitari. Tutto, ovviamente, a carico della spesa pubblica che, inevitabilmente, ha fatto esplodere il debito pubblico per ogni dove. Da noi è esploso dentro una santabarbara.

Allora: la rabbia di chi, per che? Ci sono, per dirla marxianamente, un fatto strutturale e uno sovrastrutturale. Le fasce deboli della popolazione si sono indebolite, il ceto medio più debole si è visto scivolare verso il disagio economico nel mentre immigrati regolari, ma con attività lavorative non sempre totalmente regolarizzate (anche a vantaggio dei datori e clienti italiani), aumentavano il loro benessere. È vero che la globalizzazione ha portato ai meno ricchi la possibilità di maggiori consumi, ma è anche vero che la loro insicurezza è cresciuta. E questo è ragionevole faccia crescere un sentimento rabbioso: la ricchezza nel mondo cresce e la mia sensazione di povertà pure.

A questo s’aggiunge la sovrastruttura politica: partiti senza più idee e visione del futuro si sono messi a raccogliere consensi soffiando sulla rabbia e sul rancore. Populismi di destra e di sinistra (ammesso la distinzione abbia un senso), somiglianti come gocce d’acqua. Infatti in Italia hanno governato assieme, mentre in Francia si dice che Le Pen aveva un programma sociale di sinistra. Perché ora l’assistenzialismo è de sinistra.

Se allora parliamo di cose reali e problemi da risolvere, lo smottamento e la paura dei ceti più deboli si affronta creando opportunità per i più giovani, scuola formativa e selettiva, incoraggiamento (anche fiscale) a osare, uffici del lavoro che puntino a tenere costantemente occupati. Non ad avere un lavoro costante nell’eternità. E a questi giovani non può essere messo nel conto il pagare quello che loro non avranno. Tasto delicato, ma se non li sfiora si finisce con il raccontare bubbole. Se parliamo di cose reali non si discute di immigrazione sì o no ma quale e come, dimostrando prima quali settori si fermano per mancanza di manodopera nel mentre gli indigeni restano a spasso per mancanza di competenza.
Ma nelle democrazie si è anche tenuti a raccogliere il consenso, sicché si preferisce parlare di umori, sensazioni, percezioni. Qualsiasi argomento si tocchi, quanti hanno tendono a conservare e per farlo fingono d’essere quelli che non hanno. Un Paese ricco popolato da poveri.
La rabbia, allora, diventa un prodotto politico, che va per la maggiore. A destra e a sinistra. La responsabilità si vende poco. E questo è colpa della classe politica, indubbiamente, ma anche degli elettori. Con una avvertenza: coltivare e inseguire la rabbia mollando la responsabilità non prepara sorti magnifiche e progressive.

Articolo pubblicato sul sito www.davidegiacalone.it

 

di Davide Giacalone

 

Davide Giacalone
Davide Giacalone (1959)
Dal 1979 in poi, mentre continuava a crescere il numero dei tossicodipendenti, si è trovato al fianco di Vincenzo Muccioli, con il quale ha collaborato, nella battaglia contro la droga.
Dal 1980 al 1986 è stato segretario nazionale della Federazione Giovanile Repubblicana.
Dal luglio1981 al novembre 1982 è stato Capo della Segreteria del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Dal 1987 all’aprile 1991 è stato consigliere del Ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni, che ha assistito nell’elaborazione dei disegni di legge per la regolamentazione del sistema radio-televisivo, per il riassetto delle telecomunicazioni e per la riforma del ministero PT, oltre che nei rapporti internazionali e nel corso delle riunioni del Consiglio dei Ministri d’Europa.
È stato consigliere d’amministrazione e membro del comitato esecutivo delle società Sip, Italcable e Telespazio.
Dal 2003 al 2005 presidente del DiGi Club, associazione delle Radio digitali.
Nel 2008 riceve, dal Congresso della Repubblica di San Marino, l’incarico quale consulente per il riassetto del settore telecomunicazioni e per predisporre le necessarie riforme in quel settore.
Nel maggio del 2010 ha ricevuto l’incarico di presiedere l’Agenzia per la diffusione delle tecnologie dell’innovazione, dipendente dalla presidenza del Consiglio. Nel corso di tale attività ha avuto un grande successo “Italia degli Innovatori”, che ha permesso a molte imprese italiane di accedere al mercato cinese. Con le autorità di quel Paese, crea tre centri di scambio: tecnologia, design, e-government. Nel novembre del 2011 si è dimesso da tale incarico, suggerendo al governo di chiudere la parte improduttiva dell’Agenzia, anche eliminando le sovrapposizioni con altri enti e agenzie.