UCRAINA, CREDERE NELLE INIZIATIVE DI PACE

di | 1 Mag 2023

Il corso del conflitto in Ucraina sembra non prefigurare realistici sbocchi risolutivi, delineati con convincenti proposte di pacificazione, a fronte delle condizioni estremamente precarie nelle quali tale conflitto ha precipitato gli equilibri e la sicurezza in Europa e forse anche nel mondo. Con la prosecuzione delle ostilità i costi umani ed economici sono destinati necessariamente a crescere e la comunità internazionale deve dunque individuare delle priorità per fare fronte a questa crisi. Questo nell’interesse dell’Ucraina, le cui popolazioni, pur nella volontà di resistere, non possono non ritenersi stremate ed esauste a causa delle sofferenze, delle privazioni, delle separazioni e della continua condizione di pericolo, ma anche per gli equilibri internazionali e per la sicurezza europea. L’inasprimento del conflitto e delle posizioni assunte dai soggetti coinvolti, l’estensione sostanziale del conflitto stesso, gli interessi economici in gioco concorrono tutti, se la storia ci ha insegnato qualcosa, a configurare un quadro prodromico di una deflagrazione globale. Il Papa ha più volte evocato questo scenario della guerra a pezzi e questo conflitto in Ucraina ancora più rispecchia questo concetto, nel momento in cui, con le loro forniture e aiuti logistici, cinquanta e più paesi, tra i quali grandi potenze mondiali, prendono parte, in qualche misura al conflitto stesso. E le parti, al momento, appaiono determinate a continuare con convinzione la guerra. Ma la sensazione che emerge dalle cronache quotidiane è quella di una catastrofe umanitaria, la cui prosecuzione potrebbe determinare un ulteriore mostruoso spargimento di sangue, dall’una e dall’altra parte e una lunga infinita campagna impantanata, tipo Vietnam, a suo tempo, o Palestina ancora oggi.
Appare evidente, in questa guerra, chi sia dalla parte del torto e chi da quella della ragione: la parte aggredita, più debole dell’aggressore, merita certamente la solidarietà della comunità internazionale e deve essere sostenuta. Ma quanto accaduto, un nuovo conflitto, nel cuore dell’Europa, a rischio di estensione e che già, di fatto, coinvolge gli altri paesi europei – che mandano aiuti, anche militari – deve indurci a riflettere su limiti, ritardi e omissioni della comunità internazionale, del multilateralismo e della diplomazia, sull’esigenza di una più pronta percezione di derive rischiose, se si vuole realmente salvaguardare la coesistenza pacifica come valore primario.
Il tema vero e centrale, in questo momento, sono la Russia e l’Europa, o meglio la Nato e la Russia, gli equilibri conseguenti alla fine della Guerra Fredda e dell’Urss, i rapporti tra la Russia e quegli stati ormai indipendenti dell’Europa dell’Est che erano stati a suo tempo partecipi al Patto di Varsavia, o addirittura parte integrante dell’Urss. Confidammo, dopo la caduta del Muro di Berlino, in uno scenario di pace e di cooperazione multilaterale : lo stesso allargamento Nato e dell’Unione Europea ai paesi dell’est non fu concepito in senso ostile alla Russia, benché in quei paesi si rivelassero ancora diffusi i timori e sentimenti antirussi. E’ mancata, tuttavia, un’attenzione particolare, da parte della comunità internazionale, all’esigenza di prevenire e contenere eventuali tensioni legate proprio ai retaggi dei pregressi rapporti tra la Russia e questi paesi che ne erano stati a lungo, in varie forme, satelliti, nel passato, si è sovente sottovalutata la vocazione imperialista tradizionale di una potenza come la Russia e gli eventuali contraccolpi di un allargamento della Nato e dell’Ue, in prossimità dei suoi confini. In questo senso ha costituito un’intuizione non trascurabile, alla luce dei drammi dei nostri giorni, la partnership per la pace istituita a Bruxelles nel 1994, di cui era parte anche la Russia e poi gli Accordi di Pratica di Mare, ospitati da Berlusconi, allora premier, nell’ormai lontano 2002.
Scelte di politica estera, pur condivisibili, relative all’allargamento, non hanno forse tenuto sufficientemente conto della necessità di prevedere e in qualche modo contenere l’insorgenza di eventuali conflittualità legate, appunto, alla sindrome di accerchiamento del regime russo. Peraltro, già segnali non erano mancati con le operazioni militari del 2008 in Georgia, legate alle aspirazioni su Ossezia ed Abkhazia.
Poi è arrivata la rivoluzione che ricordiamo come “Euromaidan”, la destituzione del Presidente ucraino Janukovic e l’annessione della Crimea e si è intensificata la conflittualità nelle regioni del Donbass, con un ruolo della Russia, a favore degli insorti russofoni contro il governo di Kiev. E già in quella stessa fase gli impulsi aggressivi del regime putiniano potevano quindi ritenersi prevedibili. E’ proprio a causa di questa escalation che si avverte la sensazione che la comunità internazionale forse ha mancato l’occasione di uno sforzo supplementare per evitare la deflagrazione. Ci sono ancora nel mondo, forse ci saranno sempre, autocrazie aggressive che, rispetto alle contese territoriali che si vengano a creare, siano tentate di forzare il diritto internazionale e imporre, con la potenza militare, le proprie condizioni. Tali comprimari, negli scenari internazionali, riemergono ciclicamente in ogni epoca e sottovalutarne il potenziale può portare a derive imprevedibili. Compito della comunità degli stati democratici, del multilateralismo, della diplomazia deve essere quello di trovare delle forme di composizione pacifica, anche rispetto alle pressioni di questi regimi, attraverso il dialogo, la cooperazione economica, la mediazione preventiva, rispetto a questioni idonee a determinare l’insorgenza di conflitti.
Motivazioni e premesse di questo conflitto Russia-Ucraina non giustificano certamente l’intervento militare di Putin, mirato a sovvertire gli equilibri istituzionali in Ucraina e instaurare un regime accomodante con l’invasore, né tutto l’accanimento bellico successivo, quando si è capito che le condizioni internazionali venutesi a creare non avrebbero più consentito di confidare in una guerra lampo. Ma quelle stesse premesse possono ora rivelarsi utili a guidare la comunità internazionale verso una soluzione, un’exit strategy che consenta, in tempi ragionevoli, la conclusione del conflitto. Una soluzione “creativa”, per usare le parole pronunciate dal Presidente Mattarella all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.
Dopo la rivoluzione di piazza Maidan la comunità internazionale aveva individuato nei Protocolli di Minsk del 2014-2015 una strada che appariva equilibrata. Oltre a passaggi basilari, ai fini di una pacificazione possibile, come il cessate il fuoco, il ritiro russo, lo scambio dei prigionieri, era prevista una riforma costituzionale per l’Ucraina che prevedesse una forma di autonomia speciale dei territori del Donbass, condizione per la restituzione all’Ucraina del controllo delle proprie frontiere. Nonostante la mediazione Osce e la garanzia delle Nazioni Unite (dichiarazione congiunta di Francia, Germania, Russia e Ucraina contenuta nell’Allegato alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza 2202/2015 che recepisce gli accordi 2015), gli accordi non hanno sortito l’effetto sperato. Alcune controversie giuridiche hanno bloccato la riforma costituzionale (mancata ratifica parlamentare degli accordi e contestazioni sui poteri di negoziato conferiti all’ex Presidente Kuchma). La proposta è stata ritirata nel 2019. Putin, a sua volta, ha ritenuto che i patti fossero estinti e non ha dato riscontro alla volontà manifestata da Zelenski di rinegoziare.
Sulla strada di quel negoziato di Minsk, dall’esito infelice, penso si debba tuttavia tornare, per mettere fine alla guerra, un accordo teso a quella stessa prospettiva, passando per una tregua, un cessate il fuoco che intanto ponga fine alle tragedie, ai massacri, agli orrori quotidianamente prodotti dal perdurante conflitto armato. O ripartire dalla proposta cinese, pur vaga, generica e certamente ancora insufficiente. Avrebbe potuto tuttavia costituire un’occasione, uno spunto iniziale, per avviare un negoziato, un tavolo di discussione, rafforzato dall’indiscussa autorevolezza di una potenza come la Cina, cui Putin non può restare certo indifferente. Ma è stata accolta da una diffusa freddezza, soprattutto da parte Usa. Con la recente telefonata tra Xi e Zelenski si riaccendono forse le speranze. Un obiettivo a breve scadenza potrebbe identificarsi nella sospensione delle operazioni belliche e la creazione di una zona smilitarizzata nella linea di contatto, presidiata da Onu e Osce.
Deve ritenersi, quindi, urgente, un’azione più incisiva della politica, della diplomazia. Ma si avverte una diffusa e preoccupante sfiducia e una certa demotivazione, rispetto a questi rimedi, una prevalente tendenza a ritenere ineluttabile la continuazione della guerra, sia pure invocando la sacrosanta ragione della solidarietà all’Ucraina. L’idea cioè che con il sostegno sempre crescente all’Ucraina aggredita si arrivi prima o poi o alla vittoria finale – peraltro molto difficile – o al ritiro, per consunzione, dell’invasore. E’ una prospettiva che rispetto, fondata sul diritto internazionale e sulla giusta solidarietà all’aggredito, ma si fonda su una scommessa, o meglio su una serie di scommesse: una scommessa la cui posta in gioco è molto alta. Stragi, devastazioni, migrazioni di massa, rischio di estensione del conflitto e di deflagrazione generale, il rischio di un conflitto infinito. La comunità internazionale ha il dovere di fermare questa deriva, o, quanto meno, deve tentare e deve credere nel proprio potenziale di favorire il ripristino della pace.

di Alessandro Forlani